L’1 dicembre 2022 ho partecipato a un evento organizzato da Terziario Donna Confcommercio con un intervento che non ho fatto in tempo a mandare a memoria, e che quindi ho in buona parte improvvisato. Il testo originale era questo, il senso generale è rimasto, quindi eccolo.
Oggi vorrei parlarvi di diritti.
Direte voi, cosa c’entrano i diritti, oggi? Noi qui facciamo impresa. Non parliamo di diritti, non ci occupiamo di diritti, i diritti sono una roba della politica e degli attivisti: noi facciamo soldi, fatturato, grano. Facciamo girare l’economia. Alla gente interessa quello, a noi interessa quello, i diritti sono per fighetti. Bene, io sono qua a raccontarvi come i diritti e il grano sono direttamente collegati.
Immaginate di andare a pesca. Non so quanti e quante di voi ci siano mai stati, ma immaginatevi per un attimo di essere sulla riva di un lago, con la vostra brava canna e i bigattini, che se non sapete cosa sono è perché non avete avuto un papà pescatore. Insomma, prendete il bigattino, che poi è un vermetto, e lo mettete sull’amo, e lo buttate in un lago, dove però c’è un solo tipo di pesce.
Ogni giorno andate a pescare in quello stesso lago, vi sembra l’unico lago possibile, e anche se i pesci che tirate su sono sempre gli stessi, vi sembra che al massimo si distinguano per taglia, uno è grosso uno è piccolo, ma è sempre lo stesso pesce. Ha sempre lo stesso sapore. Invece un giorno, all’improvviso, la scoperta: ci sono altri laghi. Laghi dove quel pesce là convive con altri pesci, e voi arrivate, buttate il vostro bravo bigattino, ed ecco che una volta abbocca un coregone, una volta abbocca una trota salmonata, una volta un luccio, e via dicendo. Varietà! Sapori! Biodiversità!
Ora, i lavoratori non sono pesci e voi non siete pescatori, quindi la metafora regge solo fino a un certo punto, ma ci siamo capiti. Voi siete imprenditrici e imprenditori, e operate in un contesto sociale che si racconta come l’unico possibile. In cui chi fa impresa può sempre scegliere fra il meglio che il mercato ha da offrire in ogni momento. E invece no, non è così: state pescando in un lago che è molto più piccolo e meno vario di quanto potreste immaginare.
Gli ostacoli che le persone incontrano nell’accesso al lavoro sono moltissimi, ma noi non li vediamo. La narrazione che viene fatta sul mondo del lavoro è sempre la stessa: chi vuole ce la fa, chi non ce la fa non l’ha voluto abbastanza. Lo si dice di volta in volta delle donne, degli italiani senza cittadinanza, delle persone con disabilità, delle persone nate in situazioni di marginalità: se vuoi, puoi. Devi solo volerlo abbastanza. Allo stesso modo, i risultati raggiunti dagli individui di successo diventano prova del loro valore: lo hanno voluto abbastanza.
Questa si chiama “Ipotesi del mondo giusto”, e in psicologia fa parte di quelle che vengono chiamate “distorsioni cognitive”. Sono tutte quelle cose che ci portano a pensare che la realtà sia fatta in un modo che ci piace e risponde alle nostre esigenze, ignorando tutto quello che ci indica che la verità sta da tutta un’altra parte. L’ipotesi del mondo giusto viene usata per spiegare qualsiasi stortura, qualsiasi mancanza, anche le discriminazioni più evidenti. Torna utile, soprattutto, per giustificare il fatto che le donne, che sono la maggioranza della popolazione italiana (più del 51%) sono sempre più rare man mano che ci si avvicina al vertice di qualsiasi organizzazione, istituzione o azienda. Ci sono poche donne in politica? È perché non si propongono! Ci sono poche donne nei consigli di amministrazione? È perché scelgono la famiglia. Ci sono poche donne nelle facoltà scientifiche? È perché le donne sono poco portate per la scienza.
Sono tutte cose false, dimostrabilmente false. Probabilmente lo sapete anche voi: nella vostra vita vi sarete imbattute in questi pregiudizi, ne avrete fatto le spese, oppure li avete nutriti, perché alcuni sono pure gratificanti: ci aiutano a sentirci meno sole, a non sentirci vittime quando ci viene accollato il peso del carico di cura. Pensate a quante favole consolatorie ci siamo raccontate negli anni, tipo che “le donne sanno fare più cose contemporaneamente” (io se ne faccio due le faccio tutte e due male, non so voi), le madri “sanno organizzarsi” (eh, ci tocca: ma è tempo sottratto a noi e al piacere di vivere, che è importante), le donne “sono resistenti” (ma non si potrebbe farci resistere un po’ meno ed esistere un po’ di più?)
Durante la pandemia è successa una cosa interessante. Fra le donne benestanti e quelle più povere c’è sempre stata una differenza profondissima rispetto all’accesso al lavoro: le prime potevano pagare tate, collaboratrici domestiche, personale che si sostituisse a loro nella cura di figli e parenti anziani. Con la pandemia, quella rete di sostegno è venuta a mancare all’improvviso, e moltissime donne si sono viste precipitare addosso un peso che fino a quel punto erano riuscite a distribuire, perché avevano le risorse per farlo. Solo a quel punto è diventato evidente che il carico di cura non era proprio distribuito benissimo, e che l’aspettativa era che lo reggessero loro. Anche loro, come le donne povere. La pandemia, per qualche mese, è stata la grande livella sociale. Poi i lockdown sono finiti, e ce lo siamo dimenticato.
Il lavoro di cura ha un valore inestimabile, e no, nessuno nasce col gene del cambio pannolini, la cura si impara. Ci viene insegnata. È una cosa bellissima e faticosissima e che prende tempo e può rappresentare un ostacolo insormontabile al rientro al lavoro. Le donne che vediamo celebrate sui giornali perché riescono a far quadrare tutto e a raggiungere risultati eccellenti, spesso godono di una forma di privilegio sociale: hanno il grano, insomma. Però le festeggiamo come se fossero esseri straordinari, esempi luminosi: ecco la supermamma! Ecco la studentessa prodigio! Ecco l’Eletta, colei che ce l’ha fatta, quella che prova che se non ce la fate è perché siete pigre e non lo volete abbastanza. E pazienza ogni anno perdiamo per strada migliaia di donne che non riescono a rientrare al lavoro dopo la prima o la seconda gravidanza, o che non vengono assunte perché troppo giovani e quindi magari restano incinte, o che vengono molestate sul luogo di lavoro, demansionate e scavalcate dai colleghi maschi: le donne devono soffrire. Le donne devono provare il loro valore. Le donne devono farsi valere! Campare no, eh? Campare soltanto, quello mai. Dobbiamo sempre faticare.
Stiamo parlando di persone che hanno capacità, intelligenza, competenze, visione: e che sono in parte o del tutto limitate nella libertà di metterle in campo, solo per il genere a cui appartengono. Anche dentro le aziende. Che forse non lo sanno, ma hanno fame, hanno bisogno di questa intelligenza. Ogni anno abbiamo sempre più dati e studi che ci dicono che lì dove la forza lavoro ha una composizione varia per etnia, genere, orientamento, età e cultura, il fatturato sale. Dovrebbe essere intuitivo, no? E invece non lo è: siamo ancora fermi a una cultura che considera la diversificazione e la valorizzazione delle specificità come una cosa da fighetti. Roba che non c’entra con il valore e le competenze delle persone.
Tutto quello che vi ho detto fino qua è vero e verificabile, e il solo fatto che siamo qua ce lo dovrebbe rendere chiarissimo: siamo qua perché avete sentito l’esigenza di federarvi per genere. Mica esiste una Confcommercio Uomini. Esistono fondati motivi per cui starsi vicine e affrontare l’esistente insieme aiuta le persone e le imprese a superare gli ostacoli.
Ogni impresa esiste nel mondo e influisce sul mondo; ogni obiettivo raggiunto e ogni scelta economica ricade sulla società. Le scelte che fate come imprenditrici e imprenditori, le richieste che fate ai governi, le politiche che mettete in campo all’interno delle vostre imprese fanno la differenza, sia per voi sia per il paese. E perché queste scelte siano efficaci è importante cambiare prospettiva, pensare lungo, ampliare lo sguardo. Cambiare lago. Soprattutto, cambiare lago.