Il dilemma del burkini

Beach Volleyball - Olympics: Day 2Il velo islamico in tutte le sue forme (dal burqa al niqab all’abaya all’hijab e tutto quello che ci sta in mezzo e oltre) è di nuovo argomento caldo. Colpa di un paio di notizie molto commentate negli ultimi giorni: la prima è l’apparizione alle Olimpiadi della nazionale di beach volley egiziana, che si è presentata in campo con una divisa lunga e, in qualche caso, a capo coperto. La seconda è il divieto di balneazione sul litorale di Cannes alle bagnanti in burkini, ovvero il costume intero di stretta osservanza islamica, che copre polsi, caviglie e testa.

È un argomento su cui tutti pensano di poter avere un’opinione e di doverla esprimere, tranne – cosa piuttosto interessante – le donne islamiche, che quando interpellate liquidano la questione con motivazioni di origine religiosa e rifiutano di essere ridotte ai centimetri di stoffa che hanno addosso. Gli occidentali non musulmani progressisti sono quasi tutti concordi che il velo sia espressione di una cultura patriarcale che spinge le donne verso l’invisibilità e la sottrazione del corpo, e che l’assenza di norme analoghe per i maschi musulmani sia la spia del fatto che ancora una volta sono le donne ad addossarsi la responsabilità per i pensieri e le eventuali azioni che il loro corpo provoca nei maschi. Il tutto generalmente condito con una bella dose di “noi e loro” di stampo gramelliniano.
È questo “noi e loro” che mi dà da pensare. Perché si gioca su un grosso equivoco, ovvero che il corpo femminile si presenti in due modalità: quello libero delle occidentali, e quello oppresso delle donne islamiche. Quando invece il corpo femminile non è mai libero, mai sganciato da condizionamenti e pressioni spesso contrastanti.

Quello che segue l’ha detto benissimo Ilaria Sabbatini in questo suo documentatissimo post. Mi limiterò ad aggiungere qualche considerazione partendo, come sempre, dal personale, che mai come ora è politico.

Partiamo dalle basi. Quando vado a correre o a camminare, il minimo sindacale del mio abbigliamento è reggiseno sportivo, magliettone lungo, braghette al ginocchio. Questa scelta (la parola “scelta” è fondamentale, qui) è legata a una serie di esigenze: bloccare sballonzolii fastidiosi anche per taglie piccole come la mia, attenermi alle norme minime della decenza stabilite nella nostra società, non attirare troppo l’attenzione quando percorro i tratti di strada più trafficati. A parte lo sballonzolio, niente di quanto ho citato è strettamente legato alle leggi della fisica e tutto a regole, norme e consuetudini che non sono assolutamente pari per maschi e femmine: quando io arrivo nel parco dove di solito faccio i miei giri di pista, nei giorni più caldi incrocio regolarmente maschi vestiti solo di un paio di braghette corte. Sudano anche loro, per carità, ma lo fanno tranquillamente a torso nudo, senza infrangere alcuna norma. Se io, attufata dal caldo, mi togliessi maglietta e reggiseno, qualcuno lo noterebbe. Come minimo mi guarderebbero. I genitori dei bambini presenti forse mi direbbero di rivestirmi. Un vigile potrebbe multarmi. Nel peggiore dei casi, qualcuno potrebbe interpretare la mia parziale nudità come un invito ad allungare le mani. Niente di tutto questo riguarda i corridori maschi, che al massimo si toccheranno fra di loro, ma con discrezione e fra adulti consenzienti.

Negli anni ’70 e ’80, quando io ero bambina e poi adolescente, il topless era la normalità su tutte le spiagge italiane, anche quelle a frequentazione familiare come Lignano Sabbiadoro (dove ho trascorso le prime diciotto estati della mia vita). Non era strano, non era infrequente, non era oggetto di conversazione. Poi è successo qualcosa: la crisi, la recessione, l’11 settembre, il ritorno a un conservatorismo sottile e pervasivo, è difficile dirlo di preciso. Sta di fatto che le tette al vento sono diventate una rarità.

Il mio corpo non è libero. Il mio corpo – il corpo di una donna – è sempre veicolo di significati, pubblico demanio, proprietà altrui. I centimetri di pelle che scopro segnalano la disponibilità sessuale, la disinvoltura, l’agio con cui vivo la mia forma. Il mio corpo è un messaggio e l’abbigliamento è il suo alfabeto.
Parte di questa pressione, per quanto mi riguarda, è legata alla mia età: ho più di quarant’anni. I periodici dedicati al mio target sono pieni di consigli su come vestirmi per essere dignitosa, consigli che più o meno dicono sempre la stessa cosa: copriti almeno fino alle ginocchia, meglio se anche le braccia. Scollature no. Abiti aderenti no. Qualsiasi altra scelta viene immediatamente interpretata come volgare, indecorosa, un segnale di aggressività sessuale: sono una MILF (se ho figli) o una cougar (se non ne ho). Il messaggio del mio corpo è una categoria del porno. Sopra i quarant’anni devo scegliere: adotto il codice di abbigliamento che si confà alle carampane come me, o continuo a vestirmi come mi pare e sfido gli squadroni della Buoncostume, affronto il paragone impietoso con le ventenni, mi espongo al ridicolo (anche solo introiettato)?
Non è un caso se alle donne che subiscono molestie sessuali si domandi com’erano vestite e si consideri il fatto di indossare pantaloni lunghi come un’aggravante della molestia: neanche ce l’eravamo cercata, capito. Non stavamo esprimendo sessualità in pubblico semplicemente avendo un po’ di gamba o di tetta scoperta. Fra questo modo di pensare e il velo islamico passa solo la differenza di qualche centimetro di stoffa.

Allo stesso modo, si pretende di dire alle pallavoliste egiziane – la cui sola presenza in una competizione internazionale dovrebbe a questo punto essere salutata come un trionfo della volontà, altro che oppressione – quanto e come si dovrebbero scoprire. In uno sport che è l’emblema della disparità fra i generi, con i maschi coperti fino al ginocchio e le femmine in microshorts e reggiseno, alle donne si chiede di essere decorative, sessualmente attraenti, prima ancora che atlete di valore; alle atlete egiziane, in particolare, si chiede di adeguarsi a uno standard alieno alle loro abitudini e consuetudini. E qualsiasi scelta deviante dalla norma è letta come un’oppressione patriarcale, ma cosa c’è di più patriarcale che imporre dall’alto un codice di abbigliamento, dando per scontato che le donne non possano scegliere per se stesse? Ci sentiremmo di imporre alle pallavoliste di scendere in campo vestite come Dita Von Teese in nome della libertà sessuale? La libertà sessuale è scegliere quando esprimere la propria sessualità, non esprimerla nei modi e nei tempi decisi da altri.

Se qualcuno, ora e subito e nelle presenti condizioni culturali, ordinasse alle donne occidentali – a tutte, senza distinzioni – di uscire per strada nude per provare la loro libertà dai condizionamenti, ci sarebbe una rivolta popolare. Oppure, com’è più facile, nessuna uscirebbe più, o sarebbero in poche a farlo; molte lo farebbero sentendosi a disagio, esposte. L’attacco frontale alle donne musulmane che scelgono o subiscono la copertura quasi integrale non ha come effetto la loro liberazione, ma il loro ulteriore confinamento.