Su The Vision, Jennifer Guerra si prende la briga di analizzare il documento prodotto dalla task force “al femminile” allestita dal governo come parte dell’operazione pensata per far fronte all’epidemia di Covid-19. La cosa ovvia la diciamo subito, così ce la leviamo di mezzo: recintare le femmine in modo che non vadano a infastidire i maschi è un ottimo modo per far sì che qualsiasi istanza, ragionamento o proposta prodotta dal suddetto recinto delle femmine cada nel vuoto. Ma intanto ti puoi dare delle pacche sulle spalle e dire che almeno le hai lasciate parlare. Se vuoi veramente cambiare qualcosa, inserire un pensiero laterale, provare a incidere sul reale, quelle dodici donne le prendi e le distribuisci nelle varie task force, a seconda delle competenze individuali e della visione politica nel senso più ampio. Se invece non te ne frega niente di quello che dicono le donne, fai l’operazione cosmetica di mettercele, ma isolate, così non toccano niente.
Del resto, “non toccare niente” è un po’ la matrice di tutta l’operazione, anche a monte. La task force guidata da Vittorio Colao non è esattamente l’Internazionale Socialista: la sua composizione di genere tradisce la vocazione conservativa dell’operazione, che cerca di ripristinare, non di modificare, il sistema socio-economico danneggiato dall’epidemia. In questo contesto, le dodici signore borghesi, ancorché preparate e competenti, che si sono occupate di redigere il documento “Donne per un nuovo Rinascimento” sono perfettamente inserite, come dimostrato dal documento stesso: l’insistenza su una visione del mondo e delle donne solo come di lavoratrici e professioniste ingiustamente penalizzate è a dir poco parziale. Non è che il problema non esista, anzi: esiste eccome. Ma il mondo non è fatto solo di signore istruite di ceto medio-alto che si vedono negare i ruoli dirigenziali a cui avrebbero diritto ad ambire per posizionamento e preparazione. E le donne non sono solo “lavoratrici”, sono anche e soprattutto esseri umani oggetto di un disprezzo che è sotto gli occhi di chiunque voglia guardare.
Lo dico: davvero serviva impiegare dodici donne e due mesi e mezzo per arrivare a conclusioni che, seppur a tratti sacrosante, non sono nemmeno lontanamente paragonabili al lavoro fatto anche solo negli ultimi tre anni dai movimenti femministi? È già abbastanza grave che le femministe vengano lasciate fuori dal discorso pubblico quando si parla di economia, finanza, ambiente, salute, ma è davvero surreale che siano state tagliate fuori dal discorso sulle donne, ovvero l’unico campo in cui ci dovrebbe essere riconosciuto un minimo di giurisdizione. Se non possiamo più manco parlare di femmine, di cosa dobbiamo parlare, esattamente? (Niente, mi rispondo da sola: dobbiamo stare zitte, parlare solo se interrogate e dire quello che fa comodo al potere. Quello, almeno, è chiaro.)
Dov’erano le lavoratrici del sesso, le madri disoccupate, le studentesse povere che sgobbano sui libri per poi vedersi tagliare fuori dal mondo del lavoro? Dov’erano le operatrici dei centri antiviolenza? Dov’erano le braccianti e le straniere? Che voce hanno avuto, in tutta questa operazione? Nessuna, temo. L’elegante Rinascimento femminile di questo documento non le contempla. Ho cercato nel testo: zero occorrenze per quasi tutte le parole che servono a descriverle. Pagine e pagine che non dicono mai “povertà”, “marginalità” o “prostituzione”. La parola “violenza” appare in un solo punto: quello in cui si dice che non ne hanno parlato perché è oggetto di altri tavoli di lavoro, come se nel parlare della condizione delle donne fosse possibile prescindere dall’effetto che quella violenza ha su di noi e della mascolinità tossica, che poi è la materia stessa di cui è fatto il recinto di questa task force. Non sia mai che i maschi che ti hanno dato un compito si offendano, sentendosi chiamati in causa. Della violenza maschile bisogna parlare sempre solo come una cosa “a parte”, un fenomeno che si materializza all’improvviso, come se fosse staccata dai maschi e dalla cultura della sopraffazione di cui la nostra società è imbevuta, perché è una società pensata dai maschi per i maschi in cui le donne sono sempre e solo un retropensiero. Del resto, la signora borghese e di buona posizione forse non l’ha mai subita, quella violenza: non si sente toccata dalla misoginia, e il sessismo la colpisce solo ora che si è vista lasciare a casa a badare ai figli. Quando succedeva solo alle donne povere non le sembrava così grave, o comunque non grave abbastanza da farci una task force.
La parola “cultura” non compare mai da sola, sempre nella declinazione “culturale”. Come sia possibile fare un “Rinascimento” senza un allargamento della cultura dell’accoglienza, della solidarietà e della leadership diffusa che vengono discusse da decenni in ambito femminista è un mistero che non penso verrà risolto a breve.
La sensazione è di assistere a una sorta di Truman Show della femminilità, in cui le donne sono Truman, e il patriarcato capitalista fa la regia, decidendo cosa possono dire e cosa no. E per assicurarsi che non dicano nulla di sconveniente, disturbante o radicale le fa rappresentare da dodici signore che lavorano mesi per dire poco o nulla, muovendosi sempre all’interno di linee di pensiero improntate alla conservazione, all’affermazione dell’individuo, all’apertura di opportunità all’interno di un sistema che da sempre scarica le sue responsabilità sulle vittime. Un bourgeois feminism che sta al suo posto, non fa casino, è elegante e neanche si sbatte troppo per avere il minimo, le cariche declinate al femminile, un lavoro a sforzo zero (dire “direttore” o “direttrice” non prevede variazioni nel dispendio calorico), anzi, manco le vuole, quelle declinazioni, perché il maschile è più autorevole. Il femminile delegittima e diminuisce.
A chi giova tutto ciò? A nessuno. Non giova alle donne, che non vedranno le loro condizioni cambiare in alcun modo e dovranno vedersela sempre con gli stessi problemi, che sono prima di tutto la legittimità della loro voce, la possibilità di occupare spazio senza essere fatte oggetto di attacchi sessisti e violenza verbale, di cambiare le regole per un mondo più giusto. L’ha detto chiaro Aboubakar Soumahoro il 20 maggio alla vigilia dello sciopero dei braccianti avvenuto il mese scorso: l’antisessismo non può essere disgiunto dall’antirazzismo, sono tutte cose che si tengono insieme, facce solo in apparenza diverse dello stesso problema, la dominanza sociale dei maschi bianchi borghesi. Se le uniche legittimate a parlare e a occuparsi dei “problemi delle donne” sono le donne con meno problemi, è difficile affrontare il discorso partendo dalle sue radici.
Di fatto, tanto per cambiare tutto si appiattisce in un discorso interno sulla “conciliazione lavoro-famiglia” che lascia fuori le questioni più ampie del valore attribuito alle voci delle donne, della percezione delle donne come “genere” e degli uomini come “persone” al di là del genere, della dominanza del pensiero maschile e patriarcale nella nostra cultura e della relativa tendenza a riconfigurare ogni problema, questione o difficoltà legata o generata a questa cultura come problema di qualcun altro, di chi ne fa le spese: le donne, le trans, i disabili, gli stranieri. Il problema non sono le donne. Le donne non sono una questione: la questione sono gli uomini, la cultura patriarcale, il privilegio maschile e i mille modi in cui questo viene agito e rafforzato, e il terrore di offendere i “bravi uomini” che vogliono essere assolti a titolo personale per non rischiare di mettersi mai in discussione. Le donne sono persone che fanno le spese della miopia, ottusità e violenza di una cultura che le considera poco più che decorazioni da salotto, ma pare che faccia brutto dirlo, e allora non lo diciamo. Continuiamo pure a parlare solo se interrogate.