Nei commenti al mio post legato ai fatti di Colonia, in molti si sono affrettati a rivendicare la superiorità dei costumi occidentali su quelli dei paesi islamici, citando, in qualche caso, un’applicazione stringente della religione alla politica che qui non succederebbe. Semplificando un po’ (un bel po’): le donne nelle teocrazie a matrice islamica sono oppresse a causa di un’interpretazione molto severa dei testi sacri e delle norme a loro connessi, a cominciare dagli hadith che prescriverebbero il velo e via a scendere. Qui invece c’è la Costituzione e ci sono delle leggi che assicurano la parità.
Questo è vero. Quello che sfugge alla maggior parte dei commentatori è quanto l’applicazione di principi religiosi alla legislazione sia possibile, anzi, succeda ogni giorno anche in tutto l’Occidente, in misura maggiore o minore a seconda dei capricci e del credo di chi governa. Non è vietato fare leggi che seguono le proprie convinzioni religiose, anche se poi può intervenire la Consulta a dichiararle incostituzionali.
Partiamo dalle basi, e partiamo dalla religione a noi più vicina, ovvero il cattolicesimo. La Chiesa Cattolica, al suo interno, è già strutturata come una micro-società: c’è un Capo di Stato (il Papa, sempre e solo maschio), ci sono dei funzionari di vario grado (cardinali, vescovi, monsignori e sacerdoti, maschi anche loro) e un vasto esercito di donne la cui “essenziale funzione” – per citare le parole della nostra Carta Costituzionale – è di servitù. “Ecco l’ancella del Signore”, dice Maria nel Vangelo, quando accoglie (ma aveva scelta? Mi sa di no) la gravidanza mistica e si fa incubatrice del Figlio di Dio. Sulla scorta di questa dichiarazione, le donne nella Chiesa hanno sempre avuto un ruolo subalterno, di fiancheggiatrici: le teologhe vengono prese in considerazione solo quando appoggiano o raffinano la posizione del Magistero della Chiesa. Ma quando si aprono le porte del Conclave, le donne entrano al massimo fra una seduta e l’altra per portare il tè con i pasticcini. Giusto o sbagliato, quello è.
Quello che abbiamo di fronte è una religione che ha cristallizzato la subalternità femminile e l’ha spacciata per naturale con tanto di encicliche a sostegno. Fino qua ci siamo? Se non ci siete, andate a leggervi Ave Mary di Michela Murgia (cattolica dichiarata, per capirci) e tornate. Inutile discutere senza le basi.
Visto che il nostro punto di partenza erano i diritti civili e la condizione della donna, esaminiamo un attimo la posizione ufficiale della Chiesa Cattolica sui diritti civili – nello specifico: quelli delle persone LGBTQI, per usare la sigla più inclusiva possibile – e sulla salute riproduttiva della donna. La Chiesa dice, senza mezzi termini, che se non sei eterosessuale (e cisgender) non ti puoi sposare (con rito religioso o matrimonio concordatario), e che l’aborto è peccato mortale, addirittura scomunica latae sententiae, cioè che appena abortisci sei scomunicata senza che te lo dica il Papa. Sei fuori dalla Chiesa.
Il punto sul matrimonio concordatario, nel primo caso, sarebbe facilmente aggirabile dal legislatore. Bene, niente matrimoni in chiesa, non fa niente: se la Chiesa non vuole accogliere i suoi figli a prescindere dalle loro preferenze sessuali o affettive o dal loro allineamento con il genere di nascita (sempre per semplificare moltissimo), questa possibilità viene comunque garantita dallo Stato laico, e la Chiesa si arrangia a parte. Il matrimonio contempla diritti e doveri, tutela la famiglia e i figli: le coppie omosessuali che già ne hanno (e ci sono) sono automaticamente escluse da questa tutela, a meno che il matrimonio non venga esteso anche a loro con tutte le conseguenze del caso.
Lo Stato potrebbe farlo? Certo. Lo ha fatto in molti paesi del mondo, anche a maggioranza cattolica, come Spagna e Irlanda. Lo aveva fatto in Slovenia, ma è stato abrogato da un referendum appoggiato da chi? Dalla Chiesa Cattolica. Il Papa si è mosso in prima persona per incoraggiare i fedeli a togliere agli omosessuali un diritto concesso loro dallo Stato laico.
Credo che riusciate a vedere da soli il problema, ma nel caso lo metto meglio a fuoco. In Italia, il matrimonio paritario non esiste. Al momento si sta lavorando a una legge sulle unioni civili che se da un lato assicura alle coppie non eterosessuali alcuni diritti (sempre meno, man mano che avanzano gli emendamenti), dall’altro sancisce la discriminazione fra coppie uomo-donna e coppie di altre composizioni, come uomo-uomo, donna-donna, uomo-donna transgender non operata (e quindi maschio all’anagrafe), donna-uomo transgender (idem: il genere, in Italia, è legato alla modifica anche chirurgica dei caratteri sessuali) e via dicendo. Questo chiaramente non impedisce alle persone di innamorarsi e vivere insieme tutta la vita, ma determina l’impossibilità di avviare un progetto di vita a parità di condizioni. Le prime coppie di omosessuali out stanno invecchiando e morendo, e non hanno diritto a niente: devono arrangiarsi con scritture private che possono essere impugnate, non possono assistersi reciprocamente in ospedale o farsi visita in carcere. Per la legge sono estranei. La legge sulle unioni civili metterebbe un tampone a questa estraneità, ma con limiti sempre più stretti e comunque diversi da quelli a cui sono sottoposte le coppie etero.
Questa è, a tutti gli effetti, una discriminazione come definita dalla Costituzione della Repubblica Italiana, che all’articolo 3 recita:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso , di razza, di lingua , di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Ci siamo? Mi seguite? Andiamo all’articolo 29.
La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.
Coniugi. Non voglio spingermi a ipotizzare che l’Assemblea Costituente prefigurasse un futuro in cui le coppie omosessuali potessero vivere alla luce del sole, ma sicuramente la lettera della Costituzione non lo precludeva. Sei coniuge anche se sei un uomo sposato con un uomo (e tutte le varianti di cui sopra). Il matrimonio paritario non sarebbe quindi anticostituzionale: ci sarebbero delle modifiche da fare al diritto di famiglia, che è ancora aderente a un modello di società arcaico in cui le donne passavano dall’autorità paterna a quella del marito cambiando cognome, ma sono modifiche che non richiederebbero moltissimo lavoro, e potrebbero addirittura dare una rinfrescata alla legislazione. Ma sto correndo con la fantasia. Diciamo che è fattibile, e comunque si sono fatte cose ben più grosse e impegnative, tipo la riforma del Senato.
Perché non si fa? Anche qui, prendiamo in esame solo quanto viene dichiarato: e cioè che i cattolici autodichiarati al governo, sia quelli di destra che quelli presenti all’interno del Partito Democratico, si oppongono alla sua realizzazione. Applicano alla lettera la dottrina della religione cattolica (che raramente applicano a se stessi, peraltro, dato il tasso di pluridivorziati che assumono questa posizione: ma è una faccenda fra loro e le loro coscienze che francamente non ci riguarda) portandola nell’ambito e nella sfera d’influenza di uno Stato laico.
In tutto questo, abbiamo toccato solo tangenzialmente la questione dei diritti delle persone intersex o transgender, la cui condizione – come quella degli omosessuali – viene ridotta alla composizione cromosomica e viene fatta oggetto di “terapie riparative” inutili e dannose, portate avanti da comunità a matrice anche cattolica, seppure (a quanto mi riesce di capire) in maniera non ufficiale.
Riavvolgiamo un attimo: superiorità di che?
Sui diritti riproduttivi della donna la questione è ancora più sottile e, mi viene da dire, perfida. Esiste, come tutti sapete, una legge a tutela della maternità che regola anche l’interruzione di gravidanza, ottenuta a prezzo di grandi battaglie e con il sacrificio anche personale di gente come Emma Bonino e Adele Faccio. Una legge con molti cavilli e scappatoie: l’aborto non è un diritto, per abortire bisogna in teoria provare di non essere in grado, psicologicamente o fisicamente, di portare a termine la gravidanza. Altrimenti, sei tenuta a farlo. Ci sono periodi di attesa, colloqui con gli psicologi, non è che entri abortisci ed esci. Anche qua, ripetiamo, giusto o sbagliato che sia è così. Per gli operatori sanitari è prevista l’obiezione di coscienza: una cosa che si poteva benissimo capire negli anni ’70, quando un ginecologo già attivo poteva non essere eticamente d’accordo con l’interruzione di gravidanza e quindi non essere costretto a portarla a termine. Chi si è laureato da allora lo ha fatto sapendo che l’IVG era una realtà sancita dalla legge. Fine.
Una scappatoia, anche qui, aggirabile: il servizio va assicurato, quindi negli ospedali pubblici non possono esserci più di un certo numero di obiettori di coscienza (preferibilmente nessuno, dicono i laici, ché gli ospedali cattolici esistono e gli studi medici privati pure; ma sorvoliamo). Il tetto viene stabilito dal Ministero della Salute in accordo con le Regioni, che si assicurano che in un dato turno di lavoro ci sia sempre un ginecologo che possa praticare la IVG; e contemporaneamente si offre alle donne anche la possibilità di usufruire della RU486, pillola a base di mifepristone che provoca l’aborto, già testata e autorizzata.
Cosa succede, invece, negli ospedali italiani? Il diritto è nominalmente garantito, ma il numero di obiettori in servizio è talmente alto da rendere difficilissimo ottenere un’interruzione di gravidanza in una struttura pubblica (i dati dell’articolo che ho riportato sono del 2014, ma da allora non ci sono stati interventi in quel senso). Si fa leva sul senso di colpa e vergogna che circonda l’aborto: in una società in cui il tuo utero non è davvero tuo fino in fondo, e se ospita un embrione ti può essere legalmente espropriato (la legge lo dice: se non hai problemi, l’aborto ti può essere negato) è difficile, no, impossibile che le donne scendano compatte in piazza per difendere un diritto che certo, è in contrasto con la dottrina cattolica, ma non con i principi di laicità dello Stato. Ancora una volta, il cattolicesimo si affaccia sulla legge, fa pesare la sua autorità e influenza le decisioni dei legislatori e delle persone che fanno applicare le norme.
Stesso discorso, in maniera ancora più sfumata, sulla legge 40 che regola la riproduzione assistita: una legge punitiva che rende l’IVF un calvario e la restringe alle coppie eterosessuali (coniugate o conviventi, bontà loro), e che si è tentato di abrogare con un referendum apertamente osteggiato dalla Chiesa Cattolica. Una legge che sta subendo giorno dopo giorno i colpi di sentenze che ne accertano l’incostituzionalità, ma che non viene tuttavia né riformata né abrogata. Per non parlare dei farmacisti che si rifiutano di fornire contraccettivi ormonali o d’emergenza citando un’inesistente obiezione di coscienza.
Non è difficile verificare che esiste un allineamento fra la dottrina cattolica e la legislazione italiana in materia di diritti e libertà personali, nello specifico quelle che riguardano donne e persone non eterosessuali o trans, né vedere il collegamento – spesso chiaramente espresso – fra le decisioni di parlamentari e legislatori e le indicazioni che giungono dall’autorità centrale del cattolicesimo.
Ecco fatto l’Iran, ragazzi.