Il discorso che sto per fare parte da lontano, ma per convenzione diciamo che il casus belli è questo post di Federico Mello su Facebook.
Federico e io abbiamo da tempo in corso una diatriba su questo tema. Discuterne nei commenti dei post si rivela spesso un esercizio astioso, allora provo a spiegarmi meglio qui, in un posto dove le cose bene o male restano e possono essere ripescate.
Forse perché il mio look oscilla fra Joey Ramone d’inverno e Holly Hobby d’estate (ma solo perché non ho trovato una versione convincente di Joey Ramone per i mesi balneari), forse perché non parlo di vestiti tutto il tempo, anzi mai, ma non sono molti quelli che sanno che bazzico il mondo della moda da diversi anni, prima come collaboratrice fissa di Vogue.it, poi come community manager per un grosso brand del lusso, e ora come consulente, oltre a insegnare al Master in Fashion Communication dello IED Milano. Sono nel giro da abbastanza tempo da ricordarmi quando le direttrici dei giornali di moda dubitavano delle fashion blogger, e di quando Chiara Ferragni era una ragazza giovanissima con un blog dal nome bizzarro. Adesso quella ragazza dirige un’impresa che fattura svariati milioni all’anno, nata interamente dalla sua passione per la moda, ed è il soggetto di un documentario sulla sua vita e il suo percorso professionale. Un documentario criticabilissimo, un santino patinato senza grande profondità, ingannevole fino dal titolo (Unposted: come se ci fosse qualcosa di “unposted” nella vita di Ferragni che lei non avesse deciso di lasciare fuori dai social, ora e per sempre) che però racconta una bella storia di successo.
Sono la prima ad avere dubbi sui social come officina del vuoto, specie per chi ha deciso di farne una professione. Il rischio c’è. Ma c’è anche un’altra cosa: la possibilità per le donne di inventarsi una professionalità senza dover attendere con pazienza la benedizione di qualcuno. È questo che ha fatto Chiara Ferragni, come Garance Doré, come Leandra Medine: ha intuito una tendenza, si è inventata un modo di sfruttarla, ha usato la sua giovinezza e bellezza per costruire qualcosa che non c’era. L’ha fatto per dieci anni, con costanza e intelligenza, senza scandali, senza imporsi con l’arroganza, senza andare mai all’attacco di nessuno. La sua reputazione è solida: può piacere o meno quello che fa, ma nessuno può dire che le manchi l’etica del lavoro. Chi l’attacca senza entrare nel merito lo fa perché collega la moda alla frivolezza e alla vacuità, e scambia l’apparente (e studiatissima: il carattere non basta, bisogna anche saper gestire le emozioni e la propria immagine) leggerezza di Ferragni con l’assenza di fatica o di pensiero. Non lavora in una miniera di carbone, ma del resto nemmeno i suoi critici, in media, sono gente con i calli sulle mani. La moda però è roba da donne, quindi non vale niente.
Di recente mi è capitato di leggere la nuova traduzione di King Kong Theory di Virginie Despentes, curata da Maurizia Balmelli. È un testo complesso che si presta a molte critiche, ma che dice una cosa fondamentale: dato un sistema capitalistico, non si può togliere alle donne la possibilità di mantenersi all’interno di quel sistema con i mezzi che hanno a disposizione, a meno di essere disposti a smantellare quel sistema. Despentes fa il caso della prostituzione, ma il punto rimane. I social hanno dato alle donne la possibilità di esprimersi al di fuori dei circuiti tradizionali, da sempre in mano agli uomini, che controllano l’accesso a tutte le posizioni prestigiose. Attraverso i social, molte giovani donne hanno trovato il modo di guadagnarsi da vivere sfruttando la loro popolarità. Sono le donne a controllare quella fetta di mercato e ad aver trovato il modo di rapportarsi in maniera diretta con un pubblico di consumatori. All’interno di questo sistema, Ferragni rappresenta un modello virtuoso, un profilo imprenditoriale non convenzionale ma funzionante.
Quando vedo un uomo di mezza età – sì, il genere e l’età sono rilevanti: lo sguardo di un uomo di mezza età è parziale esattamente come qualunque altro – che critica Ferragni attaccandola per la sua vacuità percepita, non posso fare a meno di vedere in filigrana l’irritazione verso una donna che ha rotto uno schema. Nessuno attaccherebbe Ferragni se lei non avesse avuto successo facendo un mestiere che i suoi critici non saprebbero nemmeno immaginare, se non fosse uscita dalla gabbia delle aspettative che abbiamo nei confronti delle ragazze. Le ragazze non possono sognare, le ragazze non possono aspirare a fare della loro vita qualcosa di diverso: le ragazze devono stare al gioco, rimanere nei binari, provare la loro virtù, il loro valore nei modi e nei tempi e con i mezzi stabiliti per loro. Devono entrare in una redazione in cui l’85% delle donne ancora in attività racconta di essere stata molestata almeno una volta nella vita. Devono farsi assumere in un’azienda in cui verranno scavalcate dai colleghi maschi più mediocri, o dalle femmine più spregiudicate e capaci di giocare al gioco secondo le dinamiche aggressive stabilite dal patriarcato. Devono accettare di essere pagate meno e lavorare di più, di perdere il lavoro per una maternità, di rinunciare alla maternità per non perdere l’indipendenza. Oppure devono essere sante, utili, gregarie: invisibili al punto di sparire quando si organizzano conferenze o panel, piegarsi o soccombere davanti al maschilismo dei compagni di partito, reggere il microfono al maschio di turno che parla, scrivere libri che gli uomini non leggono perché gli uomini non amano leggere le cose scritte dalle donne. Chiara Ferragni è bella, bionda, luminosa. Toccarla, umiliarla e costringerla alla sobrietà per non risultare provocante sarebbe stato il gioco preferito di chissà quanti uomini, se ne avessero avuto la possibilità. Le donne l’avrebbero odiata come si odiano solo le giovani e belle, con fervore quasi religioso, accusandole di usare il proprio corpo contro le altre. Per intuito, intelligenza o caso, Ferragni è sfuggita a tutto questo e ha scelto un percorso in cui è lei a scegliere quando e come essere guardata, e il mondo risponde docile alla sua richiesta.
“La società migliora con modelli come questo?” ci si domanda nei commenti al post di Federico. Chiara Ferragni non è un modello di essere umano, è una donna e un’imprenditrice: non ci si domanda mai se uno scrittore, un attore, un filosofo, un economista siano “modelli”. Sono gente che fa un lavoro, nel bene e nel male. Quello che fa Ferragni è un lavoro, produce reddito, dà lavoro ad altre persone. Non è un hobby, un passatempo o una velleità. Se altre donne provano a replicare quel modello – con risultati alterni – è perché è accessibile e lei lo ha fatto sembrare possibile, come succede per qualunque altra professione e come testimoniano le mille scuole calcio disseminate per tutto il paese. C’è chi ci riesce e chi no. Come in tutte le cose.
Dalle donne, però, ci aspettiamo che se non sono utili e gregarie siano almeno pedagogiche (che in fondo è un altro modo per essere utili e gregarie). Che contribuiscano a elevare la società, che usino il loro spazio per fare del bene al prossimo, per “veicolare messaggi positivi”. Perché le donne devono sempre servire: a qualcosa, o il prossimo, mai se stesse.