Anche quest’anno è finita, ma mai come quest’anno l’ho vissuta. Scriverne qui, a casa mia, significa potermi lasciar andare e dire che la partecipazione di Colapesce Dimartino ha segnato un cambiamento radicale nel modo in cui ho visto il festival: non più da outsider, ma da persona molto vicina ai concorrenti in gara. Impossibile non essere emotivamente coinvolta, quindi la cosa che dico subito è METTI UN PO’ DI MUSICA LEGGERA METTI UN PO’ DI MUSICA LEGGERA METTI UN PO’ DI MUSICA METTI UN PO’ DI MUSICA METTI UN PO’ DI MUSICA LEGGERA.
Ok, andiamo avanti. Le cose buone: quest’anno, finalmente, al festival c’era la musica. C’era pure qualche esca per vecchietti, tipo l’inaffondabile, ineffabile Orietta Berti, la nostra Betty White, chica mala protagonista di ogni sorta di aneddoto rock’n’roll, dalla violazione del coprifuoco con inseguimento della pula all’allagamento della sua stanza e di mezzo corridoio dell’albergo per tenere in fresco i fiori. I Måneskin, o Naziskin, come li ha chiamati lei, possono accompagnare solo. Per il resto, il cast di quest’anno ha forse penalizzato gli ascolti, ma ha benedetto le radio: oltre a ColaDima, che ascolteremo fino a settembre e che causeranno un aumento vertiginoso dell’acquisto di pattini a rotelle (io ho già cacciato fuori i miei), c’erano La rappresentante di lista con un pezzo di una bellezza strepitosa, i Coma_Cose doing Albano e Romina right, gli Extraliscio con un Davide Toffolo in forma olimpica, più un sacco di altra roba bella anche fra i giovani e da gente da cui non me l’aspettavo. A me è piaciuto moltissimo anche il pezzo di Aiello: lasciate perdere la resa sul palco, quelle sono cose che si aggiustano, sentite l’originale.
La polemica sulle donne si è ripetuta quasi identica all’anno scorso: due conduttori maschi anziani a fare da perno, con un cast di donne provvisorie intorno, sempre gratificate da un “brava!” stupefatto, come se fosse necessaria quell’approvazione quasi paterna. Una direttrice d’orchestra che insiste a essere chiamata “direttore”, contenta lei, il mondo andrà avanti a prescindere. Se n’è parlato pure troppo, oscurando (per fortuna dell’interessata) il tremendo monologo romanordista di Barbara Palombelli, sul quale vorrei spendere due parole perché ma che davéro? Scrittura a parte – una collezione di aneddoti personali giustapposti e non collegati, senza alcuna fluidità narrativa – l’intervento partiva con una lode alla capacità sacrificale delle donne italiane e proseguiva con il racconto di una gioventù che a sentirla raccontare pareva la trama di A piedi scarzi di Emanuela Fanelli, e invece era la vita di una ragazza ricca, per la quale il sacrificio è fare “addirittura la commessa”. Addirittura. Una signora sposata da quarant’anni con l’ex sindaco di Roma, che si rivolge alle ragazze dicendo che i diritti “ve li avete [sic] trovati già fatti” grazie alle lotte della sua generazione, come se le ragazze e le donne non stessero lottando ora per i loro diritti, sole e senza l’appoggio proprio della sua generazione, troppo impegnata a guardarle dall’alto in basso e a portare avanti battaglie di posizionamento per ascoltarle. Insomma, un pastrocchio con dei momenti di puro nonsense, tipo che negli anni ’60 “non avevamo le droghe”. Come ha detto più di qualcuno: le avevano finite tutte.
La novità è che le donne di Sanremo hanno trovato il modo di rivendicare un’autonomia e la capacità di ridefinire e cambiare la narrazione del programma, nonostante la palese incapacità degli autori di vederle come individui, oltre che come categoria, ancelle o vallette. Hanno cominciato Veronica de La rappresentante di lista e Francesca Michielin, consegnando i tradizionali mazzi di fiori di Sanremo agli uomini che erano sul palco con loro. Arrivati alla finale, i fiori sono stati consegnati a tutta la formazione dei Måneskin: sono piccole cose, ma che hanno significato, messe vicino ad altre cose più clamorose. Per esempio Madame, scalza sul palco, che partorisce la sua voce e poi la sposa, riprendendo il concetto narrativo di Achille Lauro nell’edizione 2020 e facendola sua in un modo che quest’anno a Lauro non è troppo riuscito. Potente, non solo per il carisma e la presenza scenica, ma anche per il valore simbolico della sua performance: Madame è giovanissima. Una ragazza che fa arte in pubblico, nel pieno possesso della sua visione creativa, e che trasporta questa centralità dell’io artistico nella presentazione dell’arte stessa. Madame dice alla sua voce “ti amo, per sempre”: non c’è gesto più importante, più vitale di questo, soprattutto per una giovane donna. Amarsi, prendersi uno spazio, riconoscere la propria voce (e la propria arte) come fondamento dell’esistenza.
Infine Victoria dei Måneskin, che negli ultimi minuti di Sanremo, a proclamazione dei vincitori avvenuta, stremata ed emozionata, all’invito a esibirsi di nuovo ha sbottato “Col cazzo, e chi ce la fa”, scandalizzando gli anziani conduttori. Poi ha preso il basso e ha suonato. Victoria, sei tutte noi. Andate, e incendiate Rotterdam.