Non siete “buonisti” se credete che i trattati internazionali vadano rispettati, che la gente in mare vada soccorsa e che le persone ripescate dal Mediterraneo potreste essere voi se non fosse per la botta di culo che vi ha fatti nascere in Europa, e bianchi, piuttosto che in Sierra Leone, e neri. Siete degli esseri umani normali, manco straordinari, normali. La correttezza e l’empatia sono normali, per un essere umano, non sono cose straordinarie: straordinario è imbarcarsi su una nave che soccorre chi ne ha bisogno, e farsi carico ogni giorno delle sofferenze altrui. Se stai a casa tua e ti limiti a sostenere queste persone (magari con una donazione? You Hate We Donate fa al caso tuo) non sei eccezionale, sei il limite minimo della decenza. Ma comunque non sei un “buonista”: quella è una parola inventata nel 1995 da Ernesto Galli Della Loggia e abusata da lì in poi per rendere indesiderabile la pratica della gentilezza.
Non sono d’accordo con Giacomo Papi quando dice che “buonista” va rivendicato, semplicemente perché ho capito che adottare il linguaggio del nemico non lo depotenzia: lo amplifica. Autodefinendoci “buonisti” in segno di sfida, in realtà stiamo legittimando le tattiche aggressive della destra razzista, che aspira a creare e conservare una società bianca, verticale, fatta di ricchi che comandano sui poveri e dispongono delle loro vite e di poveri che si fanno la guerra a vicenda. Una società in cui la crudeltà e l’aggressione del diverso sono la norma, la chiusura difensiva l’unica modalità di vita, l’ignoranza e la disumanità un vanto. Io dico vaffanculo, io dico che non sono buonista, forse non sono neanche buona, sono semplicemente un essere umano che sta e starà sempre dalla parte dei deboli, tutti i deboli di tutte le nazionalità. E i deboli non possono e non devono farsi la guerra a vicenda. Usare la parola “buonista” significa giocare al gioco del nemico, adottando la sua versione della realtà.
L’unica vera abilità di queste destre fasciste è la manipolazione e la capacità di portare tutti sul proprio terreno, costringendo la gente all’inseguimento. Io non dico “buonista”, io dico vaffanculo, le tue parole non le uso, i tuoi argomenti mi fanno schifo, e non ti rispondo: voglio essere io a iniziare il discorso. Sei tu che devi rispondere a me.
La stessa cosa vale per altre parole. Non posso parlare per “negro” o “frocio”, sono scelte della comunità nera ed LGBTQ, ma posso parlare di “troia”, che riguarda me. Rivendicare “troia” insieme alla propria libertà sessuale non fa nulla, ma proprio nulla, per demolire l’idea che una donna che vive la sua libertà sia in qualche modo sbagliata, macchiata, anormale. Rivendicare la macchia non significa farla sparire, significa conservarla. Significa adattarsi a vivere nel mondo come viene descritto da chi ti ritiene sbagliata a prescindere perché esisti al di fuori dei suoi canoni di accettabilità morale. Non li definisce lui, i canoni; non è lui ad avere il controllo del tuo corpo. Non sono “troia”, non sono “cagna”, non uso le tue parole, non voglio vivere nel mondo che mi vuoi costruire intorno: e dalle parole comincio per costruirne uno diverso, in cui anche tu possa stare bene, in cui anche tu possa imparare il valore del rispetto e della libertà contro la sopraffazione e l’oppressione.
Non usate il linguaggio del nemico. Non permettete al nemico di costruire la vostra realtà. Non aiutatelo nell’impresa.