Questo è il testo del mio speech (discorso? Vabbe’) a “Non si può più dire niente”, tre giorni sulla libertà di pensiero e di espressione organizzata dagli amici di Tlon a Parco Appio dal 20 al 22 luglio 2021. La foto da ferma era l’unica che avevo, ma era figa e quindi ve la beccate, grazie sempre a Lucia Liberti che misteriosamente riesce a farmi sembrare bella in foto.
Tutti vogliamo il cambiamento, giusto?
Giusto? Ci sono un sacco di cose nel mondo che non vanno: razzismo, sessismo, abilismo, violenza contro le persone LGBTQ e contro le donne, e disparità socio-economiche che sono spessissimo legate a tutte queste cose. E poi l’inquinamento, il consumo di suolo, la violazione dei diritti umani in tutto il mondo, insomma, di cose che non funzionano ce n’è una manata. Noi che stiamo qua probabilmente saremo abbastanza d’accordo sul fatto che ci sono dei problemi da risolvere, anche se magari non saremo d’accordo sul come risolverli. E in realtà, anche che siamo proprio-proprio tutti d’accordo sul cosa, io ne sarei così sicura. Per fare un esempio personale, io sono femminista, e non avete idea di quante volte in una settimana, quando faccio notare un problema di qualsiasi tipo, mi viene detto che non è un problema, oppure che per risolverlo dovrei fare il contrario di quello che sto facendo, o che penso si dovrebbe fare, e guardacaso questo contrario è sempre una cosa che sta benissimo alla persona che mi sta minchiarendo la lotta femminista e mai una cosa che cambi effettivamente le carte in tavola o costringa chi parla a mettersi in discussione. E se mi incazzo, perché capita pure che mi incazzi, vengo invitata a “stare calma”, a moderare i toni, se voglio che le persone stiano dalla mia parte. Altrimenti no. Perché la gente deve essere persuasa con le buone a sottoscrivere cause di elementare giustizia. Altrimenti si porta via il pallone.
È sempre stato così, da sempre: a chi protesta per qualsiasi cosa viene chiesto innanzitutto di essere degno di protestare, nel senso proprio di “accettabile alla vista”. Caso classico, il Pride, nato – ricordiamo – dalla rivolta di due donne trans. Ecco, il Pride, che alle origini era letteralmente la protesta dei freak, dei marginalizzati, delle persone difformi in tutto dall’idea americana di “dignità e compostezza”, gente che somigliava solo a sé stessa, dovrebbe essere meno “una carnevalata” per essere preso sul serio come azione politica. Insomma, per ottenere dei diritti di base tipo sposarsi, avere figli e riconoscerli, avere sui documenti il nome del genere giusto o non essere menati per strada, diritti di base dell’umanità, bisognerebbe eliminare del tutto gli elementi della propria identità che sono alla base della discriminazione. La logica è: noi i diritti te li diamo pure, devi solo diventare un eterocis borghese, o almeno sembrarlo, poi a noi che ce ne frega, manco gli eterocis borghesi sono veramente eterocis, a porte chiuse. È almeno dagli anni ’80 che so’ moderni.
Nella testa delle persone eterocis, che poi credo descriva buona parte dei presenti, le persone queer non hanno niente di cui lamentarsi: dopotutto vivono in un paese in cui nessuno le impicca al primo palo disponibile, per cui se non gli sta bene vivere in Italia possono sempre provare a vivere in Uganda. Giuro. È una cosa che ho sentito dire abbastanza spesso: ringraziate se non vi ammazziamo. Lo dicono a quasi tutti quelli che sono effettivamente a rischio di essere ammazzati per chi sono, incluse le donne. Ne muore una ogni tre giorni, più o meno, ammazzata dal compagno, dall’ex o da un familiare. Però anche solo dirlo ti attira commenti tipo “Non tutti gli uomini sono così”, che perdonate se lo ripeto, riga’, ma GRAZIE AL CAZZO. (O forse no, non è proprio il cazzo quello che dovremmo ringraziare, vabbe’.)
Sempre per la serie “degni di protestare”, forse riesco a spiegarvelo meglio con questa storia molto triste. Il 5 marzo 2018 Roberto Pirrone, 65 anni, esce da casa sua a Firenze armato di una Beretta regolarmente detenuta, con l’intenzione di suicidarsi. In un biglietto lasciato ai familiari scrive di avere problemi economici e di non voler pesare su di loro. All’ultimo momento cambia idea, sempre secondo quello che dice, e decide di ammazzare qualcuno. Come soluzione gli sembra migliore: non vuole morire ma non vuole neanche affrontare i suoi problemi, preferisce andare in galera. Prima punta l’arma contro una famiglia con bambini, ma gli sembra troppo, quindi sceglie un ambulante che passava di là, Idy Diene, 54 anni, di nazionalità senegalese (questo dettaglio è importante). Pirrone gli spara più volte al torace, e Diene muore.
Quando la notizia della morte viene diffusa, la comunità senegalese di Firenze si raduna a Piazza della Signoria per chiedere un incontro con il sindaco Nardella, un incontro che all’inizio viene rifiutato. Al rifiuto, alcuni dei manifestanti reagiscono con piccoli atti di vandalismo, spaccando alcune fioriere che trovano per strada.
Ripeto, è appena morto un uomo. È morto nel modo più stronzo possibile, ammazzato per strada a sangue freddo, e la Procura si affretta a dire che quell’omicidio non è dettato dal razzismo. È morto un uomo ammazzato da un altro uomo così profondamente convinto del suo diritto di essere visto da decidere di ammazzarsi per strada, poi no, meglio ammazzare qualcun altro, e guardacaso qual è la vita che per lui ha meno valore, quella che può essere sacrificata alle sue necessità? Quella dell’ambulante nero. Ma non c’è mica razzismo, era lui che era nero, che si trovava lì e che si è fatto sparare. Chissà qual è la soglia minima per il movente razzista, se sparare a caso a un nero non lo è.
Comunque sia: Idy Diene è morto in un modo che grida letteralmente vendetta, e per cosa si indigna il sindaco Nardella?
Per le fioriere.
Le fioriere.
Un uomo è morto ammazzato nella sua città, ma il problema di Nardella sono le fioriere, non il fatto che quello che è successo a Idy Diene può succedere a uno qualsiasi degli uomini e delle donne che stanno protestando. Non è una protesta abbastanza beneducata, che modi sono: va bene che vi ammazzano per strada a casaccio, ma un po’ di contegno.
Perché per protestare bisogna accertarsi di essere discreti. Tipo: gli scioperi, volete fare uno sciopero? Fatelo senza creare disagi. Scioperate con eleganza, con understatement. Manifestate pure, però lontano dal centro, Tor Vergata, o che ne so, Spinaceto, che anche Nanni Moretti pensava peggio. Incrociate le braccia dove nessuno vi vede, ecco, bravi, un po’ più in là. Black Lives Matter? Carini, ma meglio se stanno in America, qui da noi mica siamo razzisti, sono gli immigrati che sono neri, e se non fossero venuti qui illegalmente non avrebbero avuto problemi. Italiani neri? Come? Scusa, non ho capito. E non alzate la voce, che sono ‘sti modi, che è ‘sto casino, volete farvi ascoltare? Allora imparate a mantenere la calma. Questo, spesso, viene proprio da gente la cui generazione stava in piazza a buttare le molotov un giorno sì e l’altro pure, e che infatti è solita delegittimare le istanze altrui perché le sue, eh, quelle sì che erano istanze. Ai miei tempi avremmo. Ai miei tempi. Ma ora. Troppo.
Che poi sono in genere anche gli stessi che si lamentano che “Signoramia non si può più dire niente” e si inventano guerre immaginarie contro la parola “donna”, contro Biancaneve, Huckleberry Finn e gli ingressi dei cavi. Tutto si tiene.
Potremmo chiamarlo “Approccio Giucas Casella” alla protesta: protesterai quando te lo dirò io… solamente… quando te lo dirò io. Non funziona, eh, ma dato che chi si arroga il diritto di decidere cosa si può e non si può dire di solito lo fa perché è in una posizione di potere, dirlo è spesso sufficiente a pilotare l’opinione pubblica e a dirottarla lontano dal motivo della protesta.
È una questione di privilegio, certo. Il privilegio si definisce così: se una cosa non è un tuo problema, allora non è un problema. Oltre che una questione di privilegio, però, è una questione di necessità: spostare il fuoco, il fulcro del discorso, dall’ingiustizia al modo in cui viene denunciata, dal dolore di chi subisce alla rabbia con cui lo manifesta, è una tattica di difesa. Perché spesso, spessissimo, dietro i problemi si nasconde la complicità di chi li nega e li minimizza. L’arma utilizzata, quando non è la sufficienza, è il ridicolo: se milioni di ragazzini in tutto il mondo vanno in piazza per chiedere una cosa semplice quanto essenziale, vale a dire che non gli lasciamo un pianeta in fiamme (ed è già troppo tardi pure per quello), che ci vuole? Basta chiamarli “gretini”, problema risolto. Oppure quelli che sfottono gli attivisti che fanno uso dei social per diffondere messaggi: sarà mica attivismo, quello? Infine, il caro vecchio paternalismo: tu sei giovane, cosa ne sai. Cosa che, giuro, è stata detta a me all’inizio di quest’anno. A me. Che ho quarantotto anni. Sei sempre la ragazzina di qualcun altro, vale per gli uomini ma per le donne ancora di più.
Non è mai quello che si dice, mai. Il problema non sono le idee. Il problema è la protesta in sé. Il problema è la voce, il fatto di usarla, il fatto di dire: sono qui, esisto. Ma in fondo, che dire: proprio in questi giorni cade l’anniversario del G8 di Genova del 2001. Forse veramente, abbiamo già detto tutto quello che potevamo dire sulla protesta e sul dissenso e sul modo in cui è possibile farlo sparire soffocandolo con l’indignazione perbenista del “cosa ci sono andati a fare”. Chi era a Genova nel 2001 chiedeva un mondo più giusto, più pulito, meno asservito alle logiche del capitalismo. Li hanno corcati di botte mentre dormivano, uno è rimasto morto per terra, ammazzato da un Carabiniere. E se per vent’anni abbiamo parlato di estintori alzati e non di pallottole, di zone rosse varcate e non di cariche della polizia, di una scuola occupata e non delle teste spaccate della gente che ci dormiva dentro, ma soprattutto non abbiamo più parlato del perché così tanti giovani di tutto il mondo si erano dati appuntamento lì, è perché di quello che è successo a Genova si è deciso di parlare così, in quel modo lì, un modo che ha deciso di dipingere manifestanti pacifici come mostri violenti che minacciavano il diritto dei capi di Stato e di governo di decidere per loro senza ascoltarli. Genova ha tolto alla mia generazione e a quelle successive l’idea che manifestare fosse giusto, utile e bello, e che nella manifestazione ci potesse essere gioia, voglia di farsi sentire e desiderio di partecipazione. Quei giorni di luglio di vent’anni fa hanno chiarito le regole d’ingaggio. Noi potevamo protestare, e loro potevano spaccarci a forza di mazzate