“Soul” è un film sulla vita dell’anima

Ieri sera abbiamo visto Soul, il nuovo film di Pete Docter per Pixar, uscito su Disney+ un po’ come un regalo di Natale inatteso. Docter è quello bravo che fa i film complicati sui grandi temi della vita, però li fa animati e con i pupazzetti che fanno ridere, per cui tutti li scambiano per film di puro intrattenimento feelgood e quindi non si accorgono che Docter parla di lutto, solitudine, depressione, morte. Soul non fa eccezione, ma non so perché questa volta si è deciso di discutere sul tema “È o non è un film per bambini?“, come se i bambini non avessero alcuna cognizione dell’ineffabile, anche se non lo chiamano così.

Posto che in ogni film “per bambini”, almeno dalla serie di Shrek in poi, ci sono riferimenti comprensibili solo agli adulti – fatevi raccontare da mio nipote quella volta in cui andammo a vedere The Lego Movie 2, e solo io in tutto il cinema risi alla battuta su Ruth Bader Ginsburg, con suo sommo imbarazzo – Soul (come tutti i film di Docter) è un film che gli adulti leggono in un modo e i bambini in un altro, ma che per questo si presta a essere visto e rivisto, in momenti diversi e a età diverse. Parte come tutte le narrative classiche di riscatto da una vita noiosa: insegnante di musica in una scuola media che sogna di fare il musicista jazz di professione, ma gli viene offerto “il posto fisso”. Non proprio il suo sogno, si capisce subito: Joe vorrebbe stare su un palco, farne una professione, ma finora non gli è riuscito e quindi tutto nel mondo gli dice che forse è meglio lasciar perdere, accontentarsi, prendere quello che arriva. È un bravo insegnante, dopotutto: può fare del bene.

Invece bum! Succede un’altra cosa, una cosa inattesa (per lo spettatore che arriva alla visione senza saperne nulla), e il film prende tutta un’altra piega. Ed è chiaro fino all’ultimo minuto che è proprio quell’inizio a fornire la chiave di lettura del film: Soul è un film sulla vita dell’anima, ma proprio letteralmente. Non nel senso di anima eterna – anzi: è un film perfetto per atei, agnostici e sbattezzati di ogni ordine e grado – ma nel senso di anima nell’esistenza terrena, di vita vissuta con pienezza, di espressione e realizzazione di sé al di là della funzionalità rispetto a un sistema e della monetizzazione delle nostre capacità. Il viaggio di Joe non è il viaggio di chi si libera da una collocazione sociale insoddisfacente per realizzare un sogno e trovare la felicità in una nuova collocazione sociale giustificata dal successo e dal riconoscimento: è il viaggio di chi deve imparare (o re-imparare) a viaggiare. Non a caso, il ruolo del timoniere delle anime perse è affidato a un fricchettone che sembra uscito da un libro di Tom Robbins: un inadatto, uno che nel mondo che conosciamo verrebbe ridicolizzato e che nella cultura americana è collegato alla fantasiosa improduttività dei figli dei fiori e della controcultura.

Detta così sembra un film troppo filosofico anche per gli adulti, e invece no. Soul usa il jazz come metafora del qui-e-ora, con un linguaggio visivo strepitoso che mescola Osvaldo Cavandoli all’animazione più psichedelica, è pieno zeppo di fantasia e sovrappone gag comprensibili a più livelli che non posso citare senza rovinarvele. Contiene l’obbligatorio animale buffo e un antagonista che non è cattivo, è solo burocrate. È un film pieno di inversioni a U, svolte narrative in cui pensi che la vicenda vada a concludersi e invece no, riferimenti a personaggi storici che fanno ridere anche se non sai chi sono, perché la gag è costruita in modo da renderla divertente in maniera immediata. Ed è un film che è bene vedere da piccoli, perché da qualche parte nella testa rimanga l’idea che noi umani siamo più di quello che facciamo, siamo più della nostra efficienza, del nostro successo, dei soldi e di quello che possediamo. Che il tatto, il gusto, l’olfatto siano miracoli dell’esistenza che non è il caso di dare per scontati (e mai come ora l’abbiamo capito). E che godersi un morso di pizza, la luce del sole fra le foglie e l’aria che esce dai bocchettoni della metropolitana, imparare a essere semplicemente vivi sia importante, forse più importante di ogni altra cosa.