Una cosa personale che vorrei non scrivere mai più

Ho dormito due giorni su questo tweet di Alessandro Laterza. Due giorni. Di solito, per dimenticarmi di una cosa vista sui social mi bastano venti minuti, e invece – anche al netto del discorso che giustamente ne è scaturito – da due giorni mi sveglio con “un ovo sodo che non va né su né giù”, per citare un film che ho molto amato.

Vorrei che questa cosa non fosse personale. È molto personale.

Ho pubblicato il mio primo romanzo nel 2001, per una piccola casa editrice triestina. Nel 2004 ho partecipato a due antologie di Stile Libero. Nel 2009 è uscito Nudo d’uomo con calzino, nel 2010 Il mondo prima che arrivassi tu, nel 2013 Siamo ancora tutti vivi, nel 2017 Se basta un fiore. Non ho mai veramente pensato di essere stata marginalizzata o sottovalutata: ho scritto quello che ho scritto per amore e con amore, come scrivo sempre, senz’altra ambizione che quella di raccontare al meglio la storia che ho in testa e farla vivere alle persone come la sto vivendo io, e questo più o meno mi è bastato. Scrivere è la più grande gioia della mia vita fra quelle di cui posso godere senza coinvolgere altre persone. Però poi, sempre per onestà: pubblicare è bello, perché è bello che quello che hai scritto trovi degli occhi che non siano i tuoi, e lo faccia nella migliore forma possibile, perché l’editing conta. È bello anche che ti diano dei soldi, non diciamoci cazzate: i soldi mi levano il senso di colpa per quanto mi sono divertita invece di, che ne so, andare a lavorare in banca. Il capitalismo è una merda e ci ruba il diritto alla gioia, l’ho detto, lo ripeto, tassate i ricchi e vaffanculo.

Pubblicare, però – quindi: dare un valore commerciale a quello che hai scritto – implica anche l’introduzione di uno sguardo esterno. Lo sguardo di chi giudica la tua opera, o meglio, dovrebbe giudicare la tua opera, ma nei fatti giudica la tua commerciabilità complessiva. Ci sono libri che vanno benissimo perché chi li firma (non chi li ha scritti, riga’, i ghost writer esistono: ogni tanto qualcuno mi si propone, con mia grande ilarità) è un personaggio noto, altri che invece sono molto validi vanno meno bene. Libri ottimi non intercettano lo zeitgeist, libri pessimi invece sì. Il libro è un oggetto commerciale come tanti, e il marketing editoriale, soprattutto dei grandi gruppi, ragiona per schemi e caselle.

Lo so, la sto tirando per le lunghe e invece dovrei essere chiara: il tweet di Laterza è devastante. Davvero. Per il contenuto, prima di tutto: un uomo che vive e lavora nell’editoria italiana dai primi anni ’80 rivendica con candore di non conoscere scrittrici italiane di valore dopo Ginzburg e Morante, e parallelamente sostiene che lo sviluppo narrativo di un’opera, insieme alla costruzione dei personaggi, sia meno importante dei codici retorici (potrei scrivere un intero post solo su questo, non lo farò: voglio stare sul punto). Il sottotesto – chiarito poi dalle sue risposte – non è che non abbia davvero idea di chi siano le scrittrici italiane contemporanee, ma che trovi la scrittura delle donne sostanzialmente scarsa perché racconta una storia con dei personaggi.

Sotto quel tweet, invece di “Ma che stai a di’?” fiorisce – giuro – un elenco di autrici pluripremiate, gente tradotta in tutto il mondo, che devi veramente aver vissuto in una caverna senza giornali, radio, TV e wi-fi per evitare di averle anche solo sentite nominare. Io capisco benissimo se il meccanico sotto casa mia non sa chi sia Elena Ferrante, gente, il suo lavoro è aggiustare motori. Ed è esattamente come se il meccanico sotto casa mia andasse su Twitter per dire: per mie lacune non so come funzioni un carburatore, chi me lo spiega?

È quell’apparente indifferenza al sottotesto che mi ha gelato il sangue, più ancora dell’innocenza con cui Laterza rivendica di non leggere le donne, o comunque di non ritenerle all’altezza delle due che ha citato. Ancora meglio sono quelli che – forse per venirgli in soccorso? Forse perché non hanno capito? – rispondono con elenchi di autrici per lo più defunte. Tipo: Gianni Riotta.

(Santa Caterina da Siena. Ma voi ve la ricordate quella volta di Bersani e di “Papa Giovanni”?)

Insomma, per tornare al punto iniziale: sì, è personale, e vorrei che fossimo oneste nel dirlo. Anche se finora abbiamo vissuto, lavorato e ragionato sulla base di un patto implicito fra noi e l’editoria: sappiamo di essere sottovalutate rispetto ai maschi. Sappiamo che a parità di qualità della scrittura le recensioni riservate agli uomini sono migliori. Sappiamo che i canoni stabiliti per la valutazione di un’opera sono ancorati a valori profondamente condizionati dalla cultura maschile. Lo sappiamo, lo vediamo dalla scarsità di donne candidate ai premi letterari, lo respiriamo nell’esperienza della pubblicazione. Ma andiamo avanti, sperando di poter scavalcare quel pregiudizio, sperando che le cose cambino. Del resto, ne parliamo da anni: qualcuno ci avrà ascoltate? Qualcuno avrà letto quello che abbiamo scritto in materia?

Oggi ci dobbiamo rispondere: no. Tutti si sentono innocenti, virtuosi, esenti dall’orrenda macchia del maschilismo. E noi, che scriviamo essendo femmine, dobbiamo convivere con il dubbio che qualunque risultato misurabile con parametri oggettivi (vendite, riconoscimenti, numero e qualità delle recensioni) abbiamo conseguito con il nostro lavoro sia in qualche misura inferiore a quello che avremmo ottenuto se non operassimo in un mondo in cui un uomo può lavorare per quasi quarant’anni nell’azienda editoriale di famiglia senza che nessuno si accorga che non legge le donne, e se lo nota la considera una preferenza personale o un limite accettabile e rimediabile, tipo conoscere poco gli autori tagiki o la letteratura etiope. E anche quando quel difetto mortale viene esplicitato, con l’innocenza di chi davvero non pensa di dire nulla di male nel raccontarsi distante dalle autrici perché sono autrici, ci vuole quasi un giorno intero prima che si cominci a farlo notare. Cosicché l’uomo in questione si trova costretto a scusarsi, ma lo fa per come ha detto quello che ha detto, e non per quello che ha detto. E soprattutto per averlo detto, invece di correre ai ripari con i mezzi che sono già a sua disposizione.