L’intervento che NON ho fatto a WomenXImpact

Il 20 novembre 2021 ho partecipato a WomenXImpact, un meeting dedicato all’empowerment delle donne in ambito lavorativo, disciplina nella quale io eccello in senso demotivante, nel senso che a me il concetto di “empowerment” come definito dal femminismo bianco liberale me fa popo caca’. Mi ero preparata un testo in quel senso, ma poi non l’ho imparato a memoria e quindi l’ho improvvisato quasi tutto. I punti chiave c’erano, ma il resto era più monologo di stand-up che speech vero e proprio. Comunque lo metto qui lo stesso, anche solo perché del maiale e dei discorsi che ti scrivi non si butta via niente.

Foto rubata al Facebook di WXI in cui sono molto italiana

Non fate come me: come non avere successo e vivere comunque felici

Cosa ci faccio qui?

È una domanda che mi sono fatta più volte, non solo ultimamente, ma in generale, tutta la vita. È LA domanda, quella che accompagna ogni mio movimento, ogni trasloco, ogni cambio di città e di amicizie, ogni nuovo lavoro. Cosa ci faccio qui? Me lo sono domandato alle feste e alle riunioni, ai briefing e nei backstage dei concerti, a volte con disagio, a volte con una specie di stupore un po’ divertito. Cosa ci faccio qui? Non è questo il mio posto. Eppure ci sono. Sono qui a Women x Impact a raccontarvi la mia esperienza. Io.

Questo evento è pieno di donne che occupano esattamente il posto che dovrebbero occupare, sanno di poterlo occupare, hanno studiato per occuparlo, anche se qualcuna di loro in privato vi dirà che non è così, che anche loro spesso si sentono fuori posto, che a volte sentono che il successo che hanno avuto è più questione di fortuna che di duro lavoro. Comunque sono donne che sono riuscite nel loro intento: hanno mirato a un risultato e l’hanno ottenuto. Ecco, anche io sono così, lo devo riconoscere: ho mirato a un risultato e l’ho ottenuto, e il risultato che volevo ottenere era fare il meno possibile. Anzi, se possibile, io avrei preferito non fare proprio un bel niente, ma viviamo nel capitalismo, in qualche modo bisogna mangiare, e quindi mi accontento. Faccio il minimo indispensabile.

Allora diciamolo, se state cercando un discorso motivazionale che vi spinga a fare di più, a performare meglio, a essere più rampanti, più brave, più grintose, aspe, com’era? Dotate dell’aggressività e spavalderia necessarie per farcela in determinati campi, guardate, no. Qua non ce n’è. Siete venuti a sentire una persona pigra, spiace. Certo, me lo posso permettere, nel senso che non è che non mi renda conto di essere bianca, eterosessuale, cisgender, istruita, nata nel nord Italia e residente nella Capitale, cittadina europea, senza disabilità e con qualche talento monetizzabile. È un livello di privilegio notevole, anche se non si tiene conto del fatto che essendo una donna ho un valore di mercato circa un quarto inferiore a quello di un uomo, in media. Il mio è un discorso demotivazionale: io vi voglio convincere a fare meno, a scendere dalla ruota del criceto, a tirarvi fuori dalla grande competizione del successo. Io voglio demotivarvi a lavorare e motivarvi a vivere, perché le due cose spesso sono in aperta contraddizione.

Perché, tanto per cominciare:

Se siete qui, avete già avuto una discreta quantità di culo.

Il culo, quando ce l’hai, bisogna riconoscerlo ed esserne felici. Siamo qui dentro per una ragione, e la ragione è che siamo nati, e nate, nella parte fortunata del mondo, o in qualche modo l’abbiamo raggiunta. Comunque sia, siamo al caldo e al sicuro in un posto fico, ad ascoltarci a vicenda. Si chiama “privilegio”, questo trovarsi in un luogo sicuro, non avere fame, non avere freddo, non dover svolgere lavori non qualificati perché vieni da un paese lontano e povero e qui la tua laurea non sembra interessare a nessuno. Ma ok, non sono qua per farvi il pippone in stile filosofo di Facebook, volevo solo ricordarvi che nessuno di noi merita davvero niente, e quindi: rilassiamoci un po’. A proposito di merito, spero sappiate tutti che:

La meritocrazia è una truffa.

Nessuna delle persone che vi parla di “meritocrazia” ha ottenuto il posto che ha ottenuto per purissimo merito. La stragrande maggioranza sono uomini, e hanno costruito la loro fortuna sul lavoro sottopagato o non pagato delle donne. Il resto sono donne che hanno potuto pagare qualcun altro per badare ai loro figli, fare la spesa, cucinare, pulire. Di solito sono altre donne, oppure gente laureata che però ha la sfortuna di essere nata in paesi poveri, di non essere bianca, o entrambe le cose. Il capitalismo è così: nel capitalismo, lo sfruttamento non è uno spiacevole effetto collaterale del benessere, è la base di tutto. Ed è una catena che sembra la declinazione di un verbo, io sfrutto tu sfrutti egli sfrutta, e a meno di essere che so, Elon Musk o qualche altro triliardario, tutti siamo in qualche modo sfruttati per la gloria di qualcun altro.

Questo sistema vi racconta favole per spingervi a lavorare di più.

Vi racconta la storia del successo, della persona che emerge, che ce la fa, che viene ammirata, applaudita. Vi racconta la storia dei soldi e del prestigio che potreste avere se vi ammazzate di lavoro. Se quello non funziona, vi colpevolizza: i giovani non hanno voglia di lavorare! Non troviamo camerieri per colpa del reddito di cittadinanza, tuona gente che i suddetti camerieri vorrebbe pagarli trecento euro al mese in nero perché nelle sue cucine “fanno esperienza”. Sei povero? È colpa tua, che non ci credi abbastanza. E allora tu ti ammazzi di lavoro, porti l’acqua con le orecchie a questo o quel barone universitario, scrivi libri al posto del rinomato scrittore, metti insieme le leggi di cui il politico di spicco si intesta la paternità. Perché forse, oltre l’orizzonte di tutta quella fatica, c’è qualcosa di più che la sopravvivenza.

Voi non siete il vostro lavoro.

Le cose che fate per vivere possono somigliarvi o meno, ma non sono voi. E invece il nostro sistema vi spinge a identificarvi sempre e solo con la job description, oppure, per le donne, con la funzione familiare, donna mamma moglie manager, ma è un altro discorso, lo facciamo un’altra volta. Voi non siete il vostro lavoro, ma questo alla società non piace. Perché pensate che gli artisti, gli attivisti, i volontari e i partigiani suscitino tanta antipatia? Perché pensate che ce la prendiamo così tanto con quelli che dedicano la loro vita a creare bellezza, a rendere il mondo un posto migliore, ad aiutare gli altri, a lottare per fermare il cambiamento climatico? Perché sono persone che invece di fatturare si dedicano a fare cose che non portano loro alcun beneficio economico. Bisogna distruggerli, umiliarli, chiamarli scioperati, bambini viziati, bisogna riportarli con ogni mezzo alla dimensione del dovere, del commercio, della normalità. Bisogna scoraggiare l’espressione artistica, l’ozio, il tempo libero passato a fare niente. Ogni minuto passato senza produrre reddito è un minuto buttato.

A questo punto ci andrebbe il consiglio ispirato, il motivo per cui sono qui, il momento di esempio, di incoraggiamento, ma questo speech si intitola “Non fate come me”, e quindi nello spirito della piena condivisione delle esperienze ve lo dico: questa, per me, è la prima di una striscia di otto date consecutive nello spazio di dieci giorni, manco Ligabue sta in giro così a lungo. Avete idea di cosa significa questo per una persona pigra? Fra una settimana starò già chiedendo pietà, e mi mancheranno ancora almeno due eventi. Avrò finito le mutande, sarò distrutta dall’insonnia, dalla gastrite, dalla nostalgia di casa. Sono terrorizzata, giuro. Perché la mia vera dimensione esistenziale non è certo questo rimbalzare di hotel in hotel come la pallina di un flipper. Io non sono il mio lavoro, io esisto anche quando non sto facendo nessuna delle cose che mi danno da vivere. Eppure anche io corro, inseguo, fatico, regalo vita al fatturato, un po’ perché sono freelance e un po’ perché è solo negli ultimi anni che ho cominciato a pensare che forse non ne valeva la pena. Che non ne è mai valsa la pena. Che avere successo nel senso in cui lo intendevano gli altri non mi interessava quanto avere il tempo per fare le cose che amo, per stare con le persone che amo, per vivere. L’ho capito dopo un periodo di lavoro dentro un’agenzia milanese, l’ennesimo posto in cui mi sentivo fuori posto, ma soprattutto un posto dove lavoravo dieci ore al giorno, ero pagata per otto, e quando tornavo a casa non mi rimaneva niente. Nel giro di tre mesi avevo finito la tessera punti delle malattie psicosomatiche, le avevo tutte.

Andarsene e fare altre scelte non è un’opzione aperta a tutte e tutti, e intendiamoci, è una scelta che ho pagato dal punto di vista economico. Ma quando ho cominciato ad ammalarmi, ho capito che o venivo via da lì e tornavo nella città che amavo, fra le persone che amavo, o rischiavo di lasciarci le penne, o peggio, di perdere l’anima. Di dimenticarmi chi ero e cosa dava senso alla mia vita. Allora sono scappata, ho mollato l’agenzia e Milano, e sono tornata a casa, a Roma. La cosa curiosa è che nel mese che è passato da quando ho dato le dimissioni a quando ho fatto le valigie e ho preso il Frecciarossa definitivo ero piena di energia, lavoravo benissimo, avevo un sacco di idee. Licenziarmi mi aveva restituito il futuro. Non avevo più paura di niente.

Non so se sono stata abbastanza demotivante, spero di sì. Spero di avervi fatto venire voglia di smettere di lavorare, o se non altro di lavorare meno di quattordici ore al giorno weekend inclusi. Spero di avervi fatto venire voglia di dire di no più spesso alle narrazioni fasulle, alle proposte indegne, a quelle degne che non fanno per voi, e sì alla salute, alla vita, alla felicità, alla rivoluzione che comincia anche con la sottrazione e la fuga. Mettete in discussione ogni cosa. Grazie.