“Perché dovremmo diventare madri?”: il mio speech a TEDxUnicatt

Il 4 dicembre 2021 ho partecipato a un’edizione molto raccolta di TEDxUnicatt con questo testo, che riporto nella versione integrale che avevo scritto.

Hai figli? Vuoi figli? Hai intenzione di fare dei figli? Ma un figlio quando lo fate? Ma non ti piacerebbe avere dei figli? Figli? Figli? Figlifiglifigli?

Essere una donna con un utero (funzionante o meno, non è mica rilevante: basta avercelo) significa passare dai quindici ai vent’anni della propria vita a giustificarne la mancata occupazione, e certo, ovviamente è successo anche a me. Mi è successo in famiglia e mi è successo in contesti professionali, mi è successo fra amici e mi è successo durante le interviste televisive. Ecco, io vorrei la fierezza di quelle che ti guardano con occhio fermo e ti dicono: i bambini non mi piacciono, e di figli non ne farò mai.

Quella fierezza lì non ce l’avevo a vent’anni e non ce l’ho neanche adesso che di anni ne ho quasi cinquanta e quindi la gente ha smesso di scocciarmi per sopraggiunti limiti d’età. Anche perché sarebbe una bugia: io adoro i bambini, sono una calamita per bambini, sono la zia istantanea di qualunque ragazzino mi si avvicini. Ci gioco, li sorveglio, ci chiacchiero, sono brava a calmarli quando piangono, ho imparato a non preoccuparmi quando rovinano a terra perché non hanno ancora il pieno controllo degli arti inferiori. Soffio nasi, cambio pannolini, cullo fino al sonno, do bacini sulla bua, imbocco di pappa, mi faccio sputare in mano alimenti sgraditi e vomitare sui piedi (tutte cose realmente accadute), insomma, ho tutte le funzionalità richieste a una persona adulta nell’atto di interfacciarsi con i minori.

Eppure non ho figli, non ne ho avuti, non ne avrò. L’aneddotica familiare riporta uno scambio fra  mia madre e mia sorella e me a un’età imprecisata (fra i sette e gli otto: ho paura a chiedere conferma) in cui io avrei detto, non so con quanta fierezza ma di sicuro con una certa spietata determinazione: “Io figli non ne faccio, mica voglio fare la fine che hai fatto tu.”

È confortante sapere di aver toccato il picco della propria perfidia in tenera età, perché giuro che carogna così non lo ero mai stata prima e non lo sono stata neanche dopo. La cosa divertente, secondo mia madre, è che mia sorella (ancora piccolina) avrebbe detto “Non ti preoccupare, mamma, te lo faccio io, un bambino.” È stata di parola: ne ha fatti tre.

Non è questione di opportunità mancate, i compagni stabili in età fertile c’erano. Allora perché non ho figli? È buffo che la domanda non sia mai “Perché avrei dovuto averne?” Perché a me, come del resto a molte mie coetanee, l’idea di fare figli è sempre sembrata un po’ come, che ne so, il bungee jumping, scalare il K2, fare il giro del mondo in barca a vela: terrificante, faticoso e pure costoso, in teoria bello, ma il tempo chi ce l’ha? E la voglia? Di non dormire, soprattutto? Tutti i genitori che ho conosciuto nella mia vita sembravano degli zombie. Felici, ma vivi per miracolo. E io se non dormo una notte, una, non due, non tre, il giorno dopo sono intrattabile, odio tutti e non faccio che sbadigliare. Non dormire per tre anni (quando va bene) è impensabile. A quasi cinquant’anni di distanza, i miei genitori ancora mi rinfacciano le notti insonni dei miei primi mesi di vita, in cui per farmi dormire bisognava mettermi in macchina e partire. Non mettermi in macchina e basta, o mettermi in macchina e accendere il motore, no, bisognava muoversi.

Tornando alla questione principale: perché mai avrei dovuto avere figli? Dato che da qualche millennio non viviamo più nelle caverne, che la contraccezione esiste e quindi pure la libertà di scegliere come impiegare il proprio utero, perché una donna dovrebbe avere figli? A meno che una non li voglia un sacco, si capisce, e quella è una scelta come un’altra, ma quante sono quelle che veramente li vogliono, e quante invece li fanno per mancanza di scenari alternativi?

Fra i trenta e i quarant’anni anche ci stavo cascando anche io. Era un periodaccio, la fine di un lavoro faticoso ma che mi piaceva moltissimo e che aveva lasciato un buco nella mia vita professionale. Forse, mi dico, potrei fare un figlio. Così, come ipotesi. Non è che avessi molto altro da fare.

Vado dalla ginecologa, le racconto questa cosa. “Mi sa che è l’orologio biologico” le dico. Lei mi guarda, ride, scuote la testa. Qui devo specificare che la mia ginecologa è romana, se no sembra una ricostruzione fantasiosa. “L’orologio biologico – scusa la franchezza, eh? – è una stronzata che se so’ inventati per tenervi in trappola. Non esiste nessun orologio biologico, i figli li fai se li vuoi fare e se ti vengono, se no no.”

Il sollievo. Non ero io! Non era l’orologio biologico! Quel peso che sentivo sullo stomaco erano quei due o tre quintali di oppressione millenaria, scagliati via con un gesto casuale dalla donna incaricata di vegliare sul corretto funzionamento del mio apparato riproduttivo.

Non è mica un caso che i discorsi sul crollo delle nascite siano così spesso accompagnati da discorsi sempre identici su incentivi economici che finora hanno avuto un impatto sulla natalità prossimo allo zero, e da tentativi più o meno scoperti di toglierci la possibilità di scegliere se diventare o meno madri. Perché se una ci pensa troppo, e può decidere, è facile che decida di no. Sono anni che in Italia si parla di congedi di paternità obbligatori e retribuiti: sapete chi ne parla? Sapete chi scrive le proposte di legge, le porta in Parlamento, le fa votare? Le donne, nella vana speranza che gli uomini se ne interessino. Finora, non è successo.

Fatevi due conti.

È pieno di gente, là fuori, che pensa che diventare genitori sia una cosa “che succede, naturale”. Molti sono uomini, e perdonatemi se lo dico così, ma “naturale” proprio no, amici: anche il mal di denti è naturale. La gravidanza è faticosissima: si vomita, si sviene, si gonfiano le caviglie, si fa pipì di continuo, ti duole la schiena, e questo quando va tutto bene. Il parto fa male, nel senso che è un dolore bestia che nessuno di voi sprovvisti di utero può anche solo immaginare, e se per caso ti tagliano per far uscire meglio il capoccione di un neonato particolarmente robusto, poi ti devono pure ricucire. I punti tirano. Se volete provare, avete presente il perineo? Quella parte che per voi va dallo scroto all’ano? Ecco, ve lo tagliamo per il lungo e ve lo rammendiamo, chi si offre volontario? Poi c’è l’allattamento, e annesse ragadi al seno, provateci voi: ah, no, non potete. E a seguire, anni e anni di sforzo immane, che l’Istat certifica essere quasi tutto sulle nostre spalle. Per cui, amici il cui contributo alla genitorialità si estende poco oltre l’inseminazione, vedete dove dovete andare, voi e la natura.

In assenza di una vocazione totale, innegabile alla maternità, i figli sono una fregatura. Sì, certo, l’amore, la felicità che ti danno. Almeno fino ai dodici-tredici anni, quando si trasformano in bronci con le gambe che ti odiano a prescindere, quindi non è un grande investimento, e soprattutto: la prole non ha alcun dovere verso chi li ha messi al mondo. I genitori che si riproducono per avere qualcosa – amore, compagnia, sicurezza sociale, riconoscimento all’interno di comunità molto chiuse, sgravi fiscali o soldi – servono solo a dare lavoro agli psicoterapeuti che dovranno rappezzare i loro danni. Ai figli bisognerebbe dare e basta, e sperare che un po’ di quello che dai torni indietro in qualche forma.

I figli si fanno in due, si dice sempre. Eppure solo alle donne è richiesto di collocarsi dentro o fuori questo sottoinsieme: con figli o senza, madri e non. Anzi, per gli esperti di demografia e statistica le donne si dividono in due grandi sottocategorie: quelle che hanno assolto al loro dovere di fare figli per pagare le pensioni, e tutte le altre, le inadempienti.

Non sono mai stata incinta, nemmeno per errore, nemmeno per un attimo. Non mi è mai veramente mancato: ogni tanto mi sono immaginata che madre sarei stata, o ci ho provato, e la risposta è sempre stata ANSIOSA a lettere maiuscole, perché io sono fatta al 75% di ansia in condizioni di riposo, figuriamoci se avessi dovuto avere la responsabilità di un microumano che piange, vomita, urla, non dorme, vuole essere nutrito ogni tre ore e che fino ai due-tre anni non sa fare la pipì in autonomia.

Ho avuto e ho tuttora una vita emotiva e relazionale piena. E nonostante io non abbia mai manifestato rammarico o rimpianto per le mie scelte, la domanda “Ma tu, un figlio, no?” mi ha accompagnata per tutta la vita adulta, per poi essere sostituita da “Ma non ti dispiace non averne avuti?” Perché come mi dicevano le parenti femmine quando ero giovanissima e già riluttante: poi te ne penti.

“Poi te ne penti” è la minaccia sospesa sopra la testa di tutte le donne. Tutte. Si dice che chi nasce senza gonadi femminili abbia una percezione diversa del tempo che passa: niente mestruazioni a ricordarti che sono passate altre quattro settimane, niente menopausa come fischio finale, fertilità a oltranza: ti credo che si sentono ragazzini, mentre a noi tocca decidere in fretta, se no “te ne penti”. Di sicuro, nessuna  delle donne che me l’ha detto è stata mai in grado di figurarsi che io potessi essere felice in altri modi. Me lo dicevano quando avevo vent’anni, me l’hanno ripetuto a trenta, poi sono arrivati i quaranta e “Sei ancora in tempo!”. Ora ne ho quasi cinquanta. Quando arriva, questo pentimento? Peccato che non fumo, avrei potuto provare a vedere se funzionava come gli autobus di Roma, che appena ti appicci una paglia eccoli che girano l’angolo.

Non sono pentita, ma se dovessi dire cosa ho provato quando le mie ovaie hanno chiuso i battenti, ecco, una parte di me ha detto: non potrò più cambiare idea. È stata più la sensazione di una porta che si chiudeva che un senso di vera e propria perdita, più simile a quella che ho provato altre volte nella vita quando ho capito che per certe prime volte ormai era troppo tardi, ero troppo grande, quel treno era partito e non sarebbe tornato più. Non è “Quanto mi dispiace di non aver avuto figli”, è “Un po’ mi dispiace non poter più avere quell’opzione”, che non è la stessa cosa. È la malinconia dell’avere già vissuto più di metà della mia vita, non il desiderio di mettere al mondo piccoli umani con le mie sembianze. Anche perché ci ha pensato mia sorella, appunto, per quel fantastico miracolo della genetica che fa sì che fra di noi non ci somigliamo granché, ma che scomposte e ricomposte riemergiamo nei suoi figli. Nei miei tre nipoti rivedo precisi precisi i miei tratti fisici e caratteriali, sparpagliati qua e là, a uno la timidezza, a uno la cocciutaggine, all’altro la precocità, qui le orecchie, lì il naso, la magrezza, le lentiggini. Mi somigliano. Siamo famiglia. E loro mi aspettano con ansia ogni volta che ritorno, non dormono, si agitano, arriva la zia, andiamo a prendere la zia, quando arrivi, zia?

E insomma, questo corpo così poco leggiadro, così poco funzionale alla poetica della donna come essere meraviglioso che se non ci fosse il mondo sarebbe un posto più brutto, oltre a non decorare granché si è anche sottratto alla sua funzione ultima, quella di fare figli per la Patria. Non ho fatto felice il patriarcato, ma al patriarcato è importante dare sempre e solo dispiaceri; e non ho fatto felice l’INPS (spiace, INPS!). Però ho fatto felice me stessa, a tratti tantissimo, a tratti un po’ meno, quasi mai pensando che se avessi fatto dei figli tutto, per magia, sarebbe andato a posto.