#quellavoltache: e adesso?

Cominciamo dalle scuse: a partire da martedì scorso, già non riuscivo più ad aggiungere tutti i tweet di #quellavoltache al gigantesco Momento su Twitter. Nel momento in cui la campagna è esplosa, tutti volevano sapere com’era cominciata, e quindi ho passato molto tempo a ripetere che no, non avevo mai pensato che sarebbe successo quello che è successo.

“Piccolo progetto collettivo, aperto” non è proprio la stessa cosa che “gigantesca campagna nazionale con decine di migliaia di contributi rilevati, moltissimi non rilevabili perché schermati da Facebook”. Il 14 ottobre, per dire, io stavo già ringraziando la gente per aver partecipato.

Il casino non era neanche cominciato.

È passata più di una settimana e i tweet continuano ad arrivare. C’è chi usa l’hashtag per segnalare interviste e servizi, chi lo usa per esprimere un’opinione, chi per fare lo spiritoso o il cinico, chi perché se no non lo si nota e chi, ancora, per raccontare la sua storia. Ma siamo decisamente in curva discendente, soprattutto nel proliferare di pareri di reazione che tentano di ripristinare la normalità: il mondo va così, allucinazione collettiva, le donne non sono fragili fiori, occasione mancata, hashtag alternativo-oppositivi proposti da testate nazionali che non decollano (chissà perché). È normale. Quello che è successo intorno a #quellavoltache ha temporaneamente mandato in corto circuito la nostra cultura, in cui lo stupro e la molestia sono una vergogna per la vittima, una macchia, qualcosa che ti sei cercata. Giovani opinioniste di destra hanno confuso il femminismo con l’opportunismo e si sono affrettate a fare dei distinguo fra la stuprata “vera” (obbligata con la forza, lacero-contusa, distrutta nell’intimo, singhiozzante di fronte alle autorità ma fiera nel suo reclamare giustizia, preferibilmente morta come Rosaria Lopez o Maria Goretti) e tutte le altre. Si sono processate le vittime e si è delegittimata la loro voce. Testate nazionali antagoniste sono impazzite come cani con un pon-pon legato alla coda. Dopo qualche giorno di smarrimento, le normali funzioni del patriarcato sono in fase di ripristino. Ognuno al suo posto.

Al momento, da quello che posso vedere, l’opinione pubblica italiana è animata solo da un desiderio pruriginoso di sapere i nomi: vogliamo sapere quali dive “l’hanno data” e avere qualche nome da mettere alla gogna. Di cambiare davvero il sistema che mette la maggior parte dei soldi e del potere economico e sociale in mano agli uomini non frega quasi a nessuno, e non è nemmeno così facile. Serve un lavoro culturale enorme. Servono risorse, avvocati, persone che abbiano voglia di rischiare. Il trattamento subito da Asia Argento è un avvertimento molto più forte di qualsiasi diffida: parla, e ti daremo della prostituta, ti trascineremo nel fango, grideremo che ti limoni i cani e quindi non ti meriti nulla, ti diremo che se parli vent’anni dopo è perché ti faceva comodo. Parlare è un pessimo investimento. Taci, e lascia le cose come stanno.

Si è parlato e si parla tuttora pochissimo dei colpevoli, molto delle vittime. Si chiedono alle vittime le ragioni del loro essere vittime. Si costruiscono gerarchie di molestate, tu sì tu no, tu “ci sei stata” quindi zitta e non ce ne frega niente se avevi paura, tu invece non “ci sei stata” e quindi a posto così, non c’è stata neanche la molestia, tu sei una brava ragazza quindi ti crediamo, tu sei antipatica, disinibita o ci sei stata prima o dopo e quindi il tuo consenso non vale. Addirittura si nega l’esistenza della vittima, il più classico dei “Ma dai, ma su, ma cosa dici, non ti è successo niente”. Nessuno ha chiesto ai molestatori perché abbiano molestato. Nessuno li insegue, nessuno li cerca, nessuno chiede loro le motivazioni di quello che hanno fatto e continueranno a fare finché non li fermerà la paura, se non la decenza.

Non importa.
È successo qualcosa, e per una settimana intera tutti hanno dovuto guardare.
Per ora va bene così. E se pensate che ci si fermi qui, forse ci state sottovalutando.