Us v Them: il problema della polarizzazione

Dall’ultima volta che ho scritto qui sono successe… un po’ di cose. Alcune sono successe principalmente a livello di dibattito nazionale, altre sono eventi di portata internazionale. Provo a buttare giù qualche riflessione sintetica.

Per cominciare, è uscita SanPa, la docuserie prodotta da Netflix, ideata da Gianluca Neri e scritta da Carlo Giuseppe Gabardini. Un lavoro di enorme impatto, e che dovrebbe portare a un dibattito serissimo su un sacco di temi: le politiche sulla tossicodipendenza e la legalizzazione delle sostanze stupefacenti, i danni dell’appiattimento moralista che mette cannabis ed eroina sullo stesso piano, la legittimazione e pervasività del paternalismo che ha permesso a Muccioli di privare “i tossici” della libertà personale, e che ha impedito alle violenze avvenute a San Patrignano di essere denunciate (di molte non si parla nemmeno nella serie, ma si intuisce che sono state pesanti, molto di più di quello che viene raccontato). Qui mi vorrei soffermare su un particolare, ovvero la divisione implicita che la società opera fra “tossici” e “gente per bene”. Una divisione morale, appunto, che dà per scontato che chi è dipendente dalle droghe sia automaticamente una cattiva persona che si merita di essere emarginata, costretta con la forza a espiare la sua colpa, e se viene picchiata, umiliata, stuprata o ammazzata dalla polizia, be’, se l’è cercata. Avrebbe potuto fare a meno di drogarsi.

È un “noi contro loro” chiarissimo, questo, perché divide i degni dagli indegni, i debosciati dai sobri, i lavoratori dai perdigiorno. O almeno così ce la vogliamo raccontare, nella nostra ansia di sentirci dalla parte dei giusti, di annullare la complessità e vendicare noi stessi per esserci sacrificati al dovere. Il tossico diventa l’emblema dell’insubordinazione, la persona che esce dai binari per inseguire un piacere egoistico, che uccide il suo corpo e desertifica le sue relazioni.

Un altro “Us v Them” che ho visto in questi giorni è quello messo in campo per distanziarsi dall’assalto a Capitol Hill (scusate, per me il Campidoglio è quello dove sta il Comune di Roma, non ce n’è un altro). Un “noi contro loro” in parte giustificato, perché quelli che hanno assaltato la sede del Congresso erano suprematisti bianchi, e infatti s’è vista la prudenza con cui i loro analoghi locali si sono espressi a riguardo. Chi non è un suprematista bianco non ha avuto problemi a sentirsi ben distante da quella malabolgia. Abbiamo però visto anche altri tipi di distinguo, per lo più di classe (gente che ha parlato di “poveracci poco istruiti”), ma anche di differenza “politica”, sempre un po’ a cavallo fra la distanza di chi per censo e istruzione si sente superiore a certi ceffi e chi pensa che il problema sia “la sinistra” che non “dà risposte”.

Che il problema sia “la sinistra” è tutto da dimostrare (io direi che il problema della sinistra, principalmente italiana, è di non riuscire a parlare più manco a quelli di sinistra: ma è un’altra storia). Quello che mi preme far notare, qui, è la completa assenza di autocoscienza circa il fatto che ogni cosa che esiste deriva dallo stesso sistema socioeconomico, e che i suprematisti bianchi che rifiutano di accettare il risultato delle elezioni non hanno mai smesso di essere incazzati, neanche quando avevano vinto. Erano incazzati pure il giorno in cui hanno scoperto che il loro uomo era diventato il più potente del mondo. Sono stati incazzati per quattro anni filati, e quando l’incazzatura rischiava di smorzarsi perché stavano davvero vincendo (bambini in gabbia! Aborto illegale! Neri ammazzati come cani dalla polizia! Soppressione del voto delle minoranze!) hanno cominciato a inventarsi teorie della cospirazione per poter essere incazzati con rinnovata veemenza. Il sospetto che tutta quella rabbia non abbia un’origine economica o politica ma psicologica non sembra avere sfiorato i più.

Fra “noi” (gli intellettuali a tendenza umanista che parlano fra di loro, preferibilmente fra maschi) e “loro” (i suprematisti bianchi, i sostenitori di QAnon e i sovranisti di ogni ordine e grado) c’è una distanza indotta non dal censo, non dai soldi e nemmeno dall’istruzione. Io non credo che quello che sta succedendo e succede in America si possa spiegare lungo una sola linea di analisi, ma credo questo: che il sistema che produce il violento che vuole impiccare Pence è lo stesso che produce il mite intellettuale precario che sostiene le ONG. Lo stesso, identico. Lo scarto è da individuare nella diversa risposta alla necessità di senso: della vita, propria e altrui, del quotidiano, del tempo che scorre, di tutto quello che ha a che vedere con l’umano. Viviamo in un mondo in cui ognuno ha il cartellino del prezzo attaccato addosso, e dove ognuno viene valutato sulla base del successo che ha ottenuto: professionale, personale, di prestigio o rilevanza. È un sistema che produce vuoto, ansia, sofferenza, che ci spinge a cercare nel lavoro e nel fatturato una realizzazione, che ci chiede di essere bravi soldatini, di inserirci nella comunità, di fare tutto giusto. C’è chi ha avuto a disposizione gli strumenti per cercare il senso nella vita dell’anima, nell’apertura all’altro, nel prendersi cura di sé dal punto di vista emotivo, e chi invece ha affrontato il vuoto cercando un’appartenenza, una squadra che non gli chiedesse di interrogarsi troppo e lo facesse sentire forte, una droga che gli facesse dimenticare tutto e annullasse la sofferenza. Sono scelte, e non tutte le scelte sono equivalenti: alcune sono sostenibili, altre sono dannose e antisociali, e dobbiamo guardarci bene dal giustificarle in nome del “poverini, che altro potevano fare”, perché spesso chi finisce a giocare al piccolo fascista avrebbe tutti gli strumenti per fare scelte diverse: soldi, istruzione, privilegio. E invece diventa uno stronzo. Ma se non cominciamo a farci delle domande serie sul perché la scelta di giocare al piccolo fascista sia considerata da così tanti preferibile a quella di vivere in pace con il mondo e gli altri, quali siano le alternative davvero percorribili e cosa siamo chiamati a sacrificare (e modificare in maniera radicale) per cambiare le cose, non faremo grandi passi avanti.

Sigla finale.